foto AP

Trame di filovirus

E se il paziente X, cioè il Mohamed Atta di ebola, sale sull'aereo sbagliato?

Daniele Raineri

Disputa tra allarmisti e antiallarmisti in punta di statistica e precedenti scientifici. Indagine su errori e virus.

Roma. Quando si parla di filovirus ebola ci sono due voci: l’allarmista sulfureo e l’antiallarmista perentorio. Il secondo dice: tutti tranquilli, la Nigeria è appena stata dichiarata “ebola-free”, è successo ieri. Vale a dire che un paese che contiene 178 milioni di persone (un africano su sei), soffre di povertà, Aids endemico, corruzione e una guerra contro Boko Haram è riuscito a bloccare il contagio di ebola e non ha più alcun infetto dal tempo minimo certificato di 42 giorni (per il Senegal sarà lo stesso, se riesce a tenersi free fino a lunedì).

 

L’allarmista dice che se tre infermiere sono state contagiate a Madrid e a Dallas e sapevano alla perfezione di avere a che fare con un focolaio di ebola, allora chissà cosa succederà quando sbarcherà da un aereo il paziente X. Il paziente X è quello che passa il gate di un aeroporto in Guinea, Sierra Leone o Liberia mentre è ancora nella fase di incubazione di ebola. Fino a tre settimane senza sintomi, in cui lui sembra godere di perfetta salute, non è contagioso e quindi circola in libertà (oppure ha già la febbre e ha preso una martellata di ibuprofene in pastiglie per buttare giù la temperatura quel tanto che basta a passare i controlli. Magari lo fa per raggiungere cure migliori in altri paesi, in pratica per l’allarmista è una versione biologica di Mohamed Atta). Il paziente X s’immette nella rete mondiale dei viaggi aerei e scende a destinazione, al Cairo, Nuova Delhi o Londra, e finita l’incubazione comincia a diventare contagioso fuori da un’area isolata e protetta come l’ospedale di Madrid o quello di Dallas. Se proprio le infermiere si sono sbagliate al momento di applicare le procedure – e in modo disastroso – allora cosa ti succede se stai viaggiando sullo stesso vagone della metropolitana con X? (nota sull’ibuprofene: peggiora le condizioni, perché accelera le emorragie).

 

L’antiallarmista risponde con Craig Manning, il portavoce dei Centers for Disease Control and Prevention, che a inizio estate disse: dovendo scegliere se stare in una stanza con un malato di ebola o un malato di influenza scelgo ebola, perché per evitare il contagio è sufficiente stare fuori dalla portata dei fluidi corporei, mentre invece con il malato di influenza tocca inevitabilmente condividere l’aria. Basta quindi rimanere al di fuori dalla “splash zone”, che è l’area attorno al malato in cui lui potrebbe spargere fluidi corporei.

 

[**Video_box_2**]L’allarmista a questo punto citerà “The Hot Zone” di Richard Preston, da cui oda Ridley Scott trarrà una serie tv. Nel 1994 Preston, un giornalista del New Yorker, trasformò in libro un suo articolo molto documentato sui filovirus, su come possano contagiare l’uomo e su come per un soffio Washington nel 1989 non si era trasformata in una “hot zone”, dove per “hot” s’intende “biologically hot”, quindi pericoloso, contagioso – tanto vale familiarizzare con il gergo. Il primo capitolo descrive la prima morte documentata per il virus ebola, nel gennaio del 1980, e il romanziere americano Stephen King lo ha definito “la cosa più paurosa che ho mai letto in vita mia, e i capitoli dopo sono incredibilmente persino peggio”. Charles Monet (pseudonimo), un europeo che conduce una vita segregata come tecnico dell’irrigazione in una piantagione di canna da zucchero del Kenya, passa il Capodanno su una montagna selvaggia. C’è pure l’elemento moraleggiante tipico dei racconti horror – quello per cui i primi a morire comunque hanno qualche peccato da scontare – perché Monet è in compagnia di una prostituta, s’infila in una grotta così vasta che è usata come rifugio dagli elefanti e anche dai pipistrelli, che coprono la volta “come un rivestimento di velluto” (i pipistrelli sono il veicolo del virus). Due settimane più tardi, gli amici preoccupati per lui – sta malissimo – lo caricano su un aereo per Nairobi. In aria, durante il volo, su un aereo da cui non può scendere, gli effetti di Ebola arrivano quasi al picco. Comincia il vomito nero, provocato dalle emorragie interne, e Monet riempie subito il sacchetto di carta per le emergenze che si trova in ogni sedile, perché non c’è soltanto il contenuto dello stomaco: “Fino a quando il sacchetto non è sul punto di rompersi”. I danni agli organi interni gli danno un colorito “giallo come il formaggio Emmenthal” e piaghe rosse sul volto – che non ha più tenuta, come se stesse per scivolare via dal cranio. Il cervello va in tilt per mille piccoli coaguli e lascia Monet senza più personalità, capace di deambulare ma quasi zombificato e ormai condannato.

 

E’ una scena da horror medico, ma ha ragione Stephen King, dopo è peggio. Visitare una grotta sul fianco selvaggio di una montagna africana non fa parte delle esperienze normali di tutti i giorni. Il seguito della storia si svolge a pochi chilometri da Washington.

 

La storia scritta da Preston fa scattare un campanello d’allarme perché si sente l’eco di quello che sta succedendo oggi: le migliori strutture per il trattamento dei virus pericolosi infilano serie record di errori consecutivi. Nell’ottobre 1989 arrivano cento macachi filippini alla Hazleton Research Products, una ditta che si occupa di vendere animali da laboratorio per ricerche scientifiche. La regola dice che le scimmie devono restare trenta giorni in quarantena prima di essere cedute agli acquirenti, ma comincia una strana moria. Lo specialista che se ne occupa comincia a sezionarle senza alcuna precauzione, per capire cosa succede, ma non trova la risposta e decide di mandarne un campione a un centro delle Forze armate molto vicino (United States Army Medical Research Institute of Infectious Diseases, Usamriid), che si occupa di guerra biologica e quindi anche di filovirus esotici. E’ un posto costruito per affrontare in sicurezza agenti patogeni letali e mostruosamente rischiosi, compartimentato in settori di sicurezza diversi, il cui accesso prevede docce disinfettanti, camere con pressione dell’aria negativa – in modo che quello che è dentro non sia risucchiato all’esterno – speciali tute isolanti per gli esperti al lavoro. Ma il campione di scimmia surgelato che arriva – avvolto nella carta stagnola, come un panino – è trattato con leggerezza: “Devo ricordarmi di spiegare a questo tipo come si mandano i campioni – dice di avere pensato uno dei ricercatori presenti – potremmo innervosirci qui quando riceviamo un campione che gocciola sul pavimento”.

 

Per capire di che razza di virus si tratti, la prima cosa che fanno nel laboratorio specializzato dei militari è coltivarlo per bene: lo mettono in provette e aspettano, ma succede una cosa che non si aspettano. Il liquido non è più cristallino, diventa lattiginoso, forse un comunissimo e innocuo batterio ha contaminato le provette e ha reso inservibili le colture, bisognerà fare daccapo. Le contaminazioni da batteri producono un cattivo odore. Per sincerarsene i due ricercatori che si occupano del caso svitano il tappo delle provette che contengono microcampioni di scimmie filippine fulminate da un morbo misterioso e cosa fanno? Annusano. In realtà l’aspetto lattiginoso è dato dalle cellule della coltura ormai tutte uccise, distrutte, esplose, ed è un tecnico di laboratorio a scoprire la verità con un microscopio elettronico e un micro bisturi di diamante: una infestazione di filovirus densa come una massa di spaghetti. “Erano cobra intrecciati tra loro, come i capelli della Medusa. Erano la faccia stessa della Natura, l’oscena dea rivelata nella sua nudità”. Come finisce? Che quel ceppo di ebola è letale per le scimmie ma non per gli umani (sarà chiamato ebola-R, come Reston) e soltanto per un caso fortunato non è l’ebola-Z, come Zaire, o S come Sudan, letali e senza cure.

 

L’allarmista subisce la fascinazione dai dettagli cinematografici: il male che viene su ali di pipistrello, s’annida nella caverna africana, e si nasconde in incubazione per settimane. Quindi perde la brocca e rotola sulla china del “negri a casa loro!”. L’antiallarmista si chiede invece se chi deve affrontare questo genere di emergenze lo sta facendo al meglio, o non stia invece annusando provette con la faccia perplessa. Ieri è saltato fuori che un infermiere di Dallas è febbricitante in crociera. L’infermiera spagnola era andata con la febbre a un concorso pubblico. Noi antiallarmisti. Però, voi.

Di più su questi argomenti:
  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)