Il sindaco di Genova, Marco Doria (foto LaPresse)

Da Doria a De Magistris. La nemesi da follower che colpisce gli “arancioni”

Marianna Rizzini

Erano stati eletti a furor di popolo. Erano visti come civiltà in rapida rigenerazione, riscatto da chissà quale cricca di malaffare. E parevano invincibili proprio perché “non politici”. Invece la realtà è diversa e gli arancioni non se la passano troppo bene.

Roma. Certo che ora è dura, eccome se è dura. Ora che i sindaci “arancioni” (ex miracolo italiano) non se la passano più tanto bene, accusati se va bene d’accidia, e ora che da sinistra a destra (sull’Huffington Post come sul Giornale come nel mare di Twitter) il loro tramonto è decretato senza paracadute, tornano alla mente i giorni in cui “gli arancioni” erano considerati la primavera che avanza e l’alternativa taumaturgica ai mali del paese (“società civile”, si diceva, come fosse garanzia di sicurissimo funzionamento). Erano stati eletti a furor di popolo, Luigi De Magistris (sindaco di Napoli allora non ancora condannato per abuso d’ufficio né sospeso dall’incarico), Marco Doria (sindaco di Genova allora non ancora attanagliato dal “chi me lo fa fare?” di cui ha parlato ieri al Corriere della Sera, nel bel mezzo dell’alluvione) e Giuliano Pisapia (sindaco di Milano allora non ancora costretto ad andare all’“Eataly” di New York a promuovere un periclitante Expo). Erano visti come civiltà in rapida rigenerazione, gli arancioni, riscatto da chissà quale cricca di malaffare. E parevano invincibili proprio perché “non politici”: a Genova, non a caso, l’ex sindaco pd Marta Vincenzi, scivolata definitivamente nel gradimento dei suoi concittadini dopo un’altra alluvione (2011), scomunicava il suo successore Marco Doria, cognome nobile d’ammiraglio, al grido di “predicatore dell’anticasta”. Ma ora il sindaco, provato dalle contestazioni, confessa di chiedersi “a che cosa serva un impegno personale e diretto”, e dice al Corriere che mettersi “a spalare” sarebbe “molto più facile”, solo che il suo ruolo non è quello del “demagogo” (e ci mancherebbe, eppure era stato eletto sull’onda di una certa demagogia).

 

Voleva forse dimettersi, ha detto, ma non sarebbe servito “a cambiare una situazione insostenibile”. Ci vuole “serietà”, ha detto: “Certe iniziative rendono molto in popolarità, ma spesso confinano con la cialtroneria” (e chissà se parlava di Beppe Grillo in marcia su Genova con pale e parlamentari per cacciare fango e “peste rossa”). Ed è la Nemesi per l’arancione, questa, la vendetta della “retorica ambientalista dell’emergenza” che si ritorce contro uno che, come Doria, aveva incarnato, da outsider di sinistra, le speranze altrettanto retoriche di una “società civile” esacerbata, salvo poi sperimentare, un anno fa, l’assedio dei follower “benecomunisti” (fan dei beni comuni) che gli imputavano atteggiamenti troppo real-politici sul caso dei tramvieri in sciopero selvaggio.

 

[**Video_box_2**]“Pago lo scarto tra corsa al potere e sua gestione”, diceva allora il professor Doria. Scarto che angustia oggi il sospeso ma non dimissionario De Magistris, uno che si autofesteggiava con abbracci di popolo e citazioni su Twitter (da Che Guevara a Carlo Pisacane) e si definiva, in un libro-intervista con Claudio Sabelli Fioretti, un “enorme plusvalore”, al punto da vagheggiare quel che poi finì silurato alle elezioni: il predellino dei manettari, la “Rivoluzione civile” con Antonio Ingroia come testa di serie. Voleva “scassare”, il sindaco di Napoli, ma l’amore dei follower è volubile (già s’affumò per la pedonalizzazione del lungomare, figurarsi dopo che è uscita la motivazione dei magistrati sull’abuso d’ufficio). Pisapia può ancora trincerarsi dietro i sette matrimoni gay fatti registrare a Milano e i bandi per moschea annunciati un mese fa, per evitare di finire nel mirino dei delusi epidermici, quelli che, complici i boschi verticali nei grattacieli-vetrina, per il momento gli risparmiano critiche su cantieri aperti e vigili urbani carenti. E alla fine, agli arancioni, arriva pure la beffa: “Ma non era meglio eleggere gente con precedenti esperienze amministrative?”, si chiede ora qualche ex follower impertinente.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.