“Il magistrato delle acque a fine d’ogni estate metteva insieme una bella squadra di tagliaerbe e taglialberi. Partivano per il greto del Bisagno”

Bisagno incazzato

Giuseppe Marcenaro

La maledizione di s. Brigida, il mugugno dei genovesi che buttano tutto nel torrente, le colpe di un Doria sindaco riluttante e fiacco. Insalutato uscì dal Carlo Felice. Fuori era il finimondo. Si stupì di non essere stato informato dell’evento dall’Arpal.

Il tenore, sul palcoscenico del Carlo Felice, nella tesa attenzione generale, stava vocalizzando la supercelebrata “Furtiva lacrima”. Il cellulare vibrò nella tasca del sindaco di Genova. Un sms: “Bisagno esondato”. Erano le 23 passate da qualche minuto. Il primo cittadino non aspettò la conclusiva esaltazione di Nemorino per Adina, con l’accorato  “M’ama, lo vedo… Cielo, si può morir; di più non chiedo”. Si alzò furtivo dalla poltrona riservata al sindaco e presidente del Teatro dell’Opera. Insalutato uscì dal Carlo Felice. Fuori era il finimondo. Si stavano sganciando le cateratte del cielo. Si stupì di non essere stato informato dell’evento dall’Arpal, il servizio per la protezione dell’ambiente ligure, affollato di “maghi della pioggia”. Un ente  di previsioni meteorologiche che costa un milione e mezzo l’anno. E non ne imbrocca mai una. Si difenderanno dicendo che il sistema matematico in uso non aveva dato elementi tali da proclamare l’allerta. Sotto al pronao allagato, il sindaco di Genova aspettava qualcuno che lo venisse a prendere per recarlo al Matitone, uno sgraziato grattacielo ottagonale sede degli uffici tecnici del comune di Genova, dove s’era convocata d’urgenza la commissione per far fronte al non previsto evento. Intanto pensava che, bene o male, una delle tante grane di Genova, la stagione dell’Opera, era risolta. Quel 9 ottobre era la serata inaugurale. Dopo mesi di annose beghe, con un deficit mostruoso, il via, vattene, a un soprintendente sostituito d’ufficio, e un raffazzonato cartellone, una pezza all’immagine della cultura cittadina, al di là dei diffusi pessimismi, era riuscito a metterla. Quella sera però era risultata una première di basso tono. Teatro mezzo vuoto. Meno male un’opera popolare, “L’elisir d’amore”, messa insieme con  scenografie d’antan, recuperate dai magazzini. Cantanti più o meno. La sempre tumultuosa orchestra portata a ragione. L’onore di facciata (misera) era salvo.

 

Quando il sindaco, con un’aria da pugile suonato, arrivò al Matitone fu accolto da un gruppo di assonnati funzionari dell’alta burocrazia comunale, tirati giù dal letto d’urgenza. Si doveva avviare la macchina della protezione civile. Dalla valle del torrente Bisagno arrivavano notizie drammatiche. Continuava a piovere con la violenza dell’iradiddio. Dalla mattina cattivissime nubi autorigeneranti (neologismo meteorologico) ostinatamente posate sulla città, dispensavano una pioggia torrenziale, una cortina d’acqua così spessa che non ci si vedeva da qui a lì. Le previsioni dell’Arpal erano tuttavia tranquillizzanti. I soliti temporali di stagione. I modelli matematici invitavano alla serenità. E invece.

 

Per il sindaco Marco Doria la prima alluvione del suo ciclo amministrativo. Era psicologicamente impreparato ad affrontare una emergenza del genere. Ma proprio a lui doveva capitare? Gli uffici preposti non lo avevano informato e, ovviamente, lui non aveva certo inutilmente allarmato i suoi cittadini, proclamando “l’allerta 2”, il grido di massima pericolosità. La promessa di un nubifragio. Spaventare la gente inutilmente non si fa. Anche un sindaco ha il suo codice d’onore. Vabbè che in passato, quando un predecessore (anzi una predecessora) del sindaco Doria aveva proclamato un’allerta affiorata dai modelli matematici per una prevista bufera di neve, e poi non era successo niente, quegli antipatici mugugnoni di genovesi avevano sbeffeggiato l’allora madama sindaco. E lei, suscettibile come una sensitiva, se l’era presa al punto che, il 4 novembre 2011, aveva preso le distanze da una annunciata alluvione e si era ben guardata dall’avvertire i genovesi, specie delle zone in palese pericolo. “Mandate pure i bambini a scuola. Nessun problema”. Esito: tra le 10 e le 11 e 30 di una stratemporalesca mattina, il torrente mezzo “tombato” dalle urbanizzazioni selvagge, il turpe “rigagnolo” Fereggiano, affluente del Bisagno,  straripava con la furia di un’orda di unni. La parte orientale della città sotto due metri d’acqua. Sei morti. La signora sindaco, dopo un po’ di contorcimenti burocratici, dichiarazioni, insulti e bugiardate in pubblico, verbali contraffatti, rinviata a giudizio per omicidio colposo e imputazioni di falso in atto pubblico.  Tutto questo perché non aveva proclamato “l’allerta 2”. Aveva temuto, nel caso di un flop temporalesco, di perdere di nuovo la faccia con i suoi elettori. Insomma, di essere presa in giro. Gloria dell’autoconservazione e dell’autoconsiderazione. Un sindaco fischiato? Giammai.

 

A tutto questo, nella notte del 9 ottobre 2014, doveva pensare con angoscia il successore della sindachessa, il primo cittadino di Genova, Marco Doria. Geniale la sua prima dichiarazione, post ovvi recrimini per il disastro: “Non sono mica uno specialista in previsioni matereologiche”. Da storico sofisticato quale è, avrebbe anche potuto, rifacendosi a un remoto fatto da note a piè di pagina, togliendosi ogni responsabilità, dare la colpa dell’alluvione a Santa Brigida. Va’ a vedere.

 

[**Video_box_2**]Con la confidenza che ci si deve permettere ogni tanto, questa volta bisognerà proprio farli i conti con Santa Brigida. Perché quando è troppo è troppo. La storia è presto detta. XIV secolo. Brigida, della real famiglia svedese, al tempo suo, quattordicenne, andò in sposa a Ulf Gudmarsson. Ebbe otto figli e restò vedova. Cosa poi succedesse in cuor suo non è dato saperlo. Cadeva in permanenti deliqui e aveva visioni mistiche. Da un giorno all’altro decise che i sublimi turbamenti li avrebbe dovuti confessare al Papa. Partì. E qui sta la “storia”. Lungo il viaggio passò per Genova. Vi fu onorevolmente ospitata. Passeggiando un giorno sulla collina che sovrasta la città – per chi è pratico si trattava dell’altura del Righi – indicando il panorama ai suoi piedi se ne uscì con una inaspettata profezia: “Un giorno il viandante che passerà dall’alto di questi colli, accennando con la mano a lontani cumuli di rovine, dirà: laggiù era Genova”. E no! Ma chi diavolo aveva mai incontrato santa Brigida a Genova per farle girare al punto l’anima da predire l’infungibilità della superba città di mare? C’è da pensare le avessero fatto almeno qualche sgarbo. Mancato di rispetto. I genovesi sanno essere scontrosi, angolosi, ruvidi. Ma con una regina. In odore di santità, poi. Eppure.

 

Conoscendo un poco la struttura della città, con quel che è capitato a Genova in questi primi giorni d’ottobre, si rimane sorpresi dalla puntualità della premonizione della dispettosa santa. Dalla collina del Righi, voltando lo sguardo a mano manca, l’attenzione cade sulla valle ove scorre il nevrotico torrente Bisagno. Il genovesissimo corso d’acqua che s’è guadagnato in questi giorni le prime pagine dei quotidiani e l’apertura del telegiornali. Già: “Laggiù era Genova”. E brava santa Brigida! Doveva aver capito che l’onore degli uomini col tempo si consuma. Si svuota d’ogni aspirazione al bello. Insomma rende ignavi di fronte al “paesaggio” e all’“ambiente” dove la sorte ha destinato a vivere. E l’attenzione al proprio ambiente alla lunga stufa. E come ognun sa la cura del territorio e la sua salvaguarda è impegno civile, silente, discreto. Di più. A chi si dedicasse a praticarla, quest’arte non conferisce immagine e neppure organizza il consenso.

 

Ai genovesi d’oggi, detta senza metafora, la loro città deve proprio fare schifo. Si vabbè, le sublimi dimore dei secoli passati. Il sobrillante mistero di certi angoli del centro storico. I viaggiatori stranieri che esaltavano la città di marmo. Flaubert davanti al panorama di Genova si sdilinquì: “Una bellezza che strazia l’anima”. Oggi è patrimonio dell’umanità. Per farne? I genovesi devono essere convinti che i tempi hanno da fare il loro corso. Intanto c’è il destino segnato: la “maledizione” di santa Brigida. E scetticamente aspettano l’avverarsi della profezia. E per non dimenticarsene, quasi un ineluttabile monito quotidiano, alla malaugurante regina hanno dedicato un oratorio, due piazze, una via, una scalinata, un passo, un archivolto e una salita. Creando in tanto zelo contra iettatura una toponomastica da confusionari. Tant’è.

 

Genova è una città che ha perduto i colori. La veritable historia della profezia è però un’altra. E ha il sapore della rivalsa che prende ogni volta che una disgrazia o un cataclisma si abbatte sulla sfigatissima Genova. Quella che, attraverso i secoli, ha preteso definirsi “Superba”. Una botta encomiastica di presuntuosa autoattribuzione.

 

Oggi la città è ancora una volta accasciata dall’alluvione. Un secondo dopo, a tragedia compiutasi, come sempre succede, la voce del popolo (che è la voce di Dio) vuol darsi ragione dell’accaduto. E nell’ira funesta si cerca il colpevole. Colui il quale, o coloro i quali, hanno consentito avvenisse l’ennesimo scempio. Santa Brigida? Calma. Ancora una volta la fatalità? Calma. E’ il caso, cinico e baro. Anche se l’alveo dei fiumi urbani non viene ripulito e a fine estate finiscono col rassomigliare a foreste amazzoniche. Alberi crescono rigogliosamente sfidando l’imperturbabilità di filari di pioppi.  All’ombra dei quali gli integerrimi cittadini viciniori dei corsi d’acqua, per decor, depositano la risulta delle ristrutturazioni di appartamenti e villottine.  Affidano al letto dei torrenti nobilissime collezioni di effervescenti reperti archeologici di modernariato: frigoriferi rugginosi, lavatrici scalcagnate, lavastoviglie sfondate, televisori d’antan, materassi purulenti e ogni altro genere di prodotto andato in disuso nella civiltà nostra. Carcasse di motocicli spolpati, carrozzine sciancate. Ogni bendiddio. Insomma la nobil traccia di una società vocata ad ascendere.

 

Genova, dal XVII secolo,  non ha più un magistrato delle acque. Un ufficio creato dalla Repubblica che prendeva a staffilate chi scaricava rumenta et zettum nei corsi d’acqua. Il Magistrato delle acque a fine d’ogni estate metteva insieme una bella squadra di tagliaerbe e taglialberi. Partivano per il greto del Bisagno, il torrente più nevrotico del mondo (e dove avrebbe dovuto scorrere se non dalle parti di Genova?) e ripulivano il letto da tutti gli erbaggi spontanei, rimondavano la biscetta acquorea, il torrente in secca. Come dicevano a quel tempo: maniman piombasse qualche temporale e facesse venire al Bisagno qualche malsana idea. E massimamente, sotto imperituro controllo, erano gli orti e le case dei contadini lungo il torrente; contadini che a Genova venivano chiamati besagnini, perché dalla ubertosa valle del Bisagno recavano ai mercati di città gli ortaggi di giornata. Quei contadini di poca terra, avessero tirato su un capanno o deviato per comodo del campicello delle melanzane un ruscelletto, si sarebbero trovati da un’ora all’altra chiusi nella torre di Palazzo. E lì, a furia di ceffoni, avrebbero dovuto dar conto delle loro effrazioni. Si ricordassero che il torrente e l’ambiente andavano rispettati. E se non avessero ben inteso, avrebbero capito da soli  se per caso fosse capitata una di quelle piene cui nelle cronache si faceva menzione come “improvvisa et virulenta”. La frase conclusiva era tale a un sigillo: “Il Bisagno non deve incazzarsi”.

 

[**Video_box_2**]Ed è proprio da qui che bisognerebbe cominciare a decrittare la profezia di santa Brigida, rovesciando tuttavia i termini, non come promessa di disgrazia ma esortazione: ceffoni e staffilate da infliggere ai trasandati cittadini e ai reggitori della cosa pubblica che trattano male o non si curano dei torrenti cittadini. Non denunciarli. Che tanto non serve. Neppure farli arrestare. Prenderli a ceffoni sulla pubblica piazza quando aprono bocca per schivare le responsabilità che hanno voluto assumersi e alle quali mancano sempre di parola. Però bisogna essere seri. Con Santa Brigida e con il Bisagno c’è poco da scherzare. Da che mondo è mondo i genovesi sanno cosa avviene a Genova a ogni principio d’ottobre. E’ l’arrivo dell’autunno, bellezza. E con l’autunno, come storia comanda, arrivano le nuvole. E, per com’è fatta la Liguria in quel punto, a ridosso delle colline, le nuvole si insaccano in un orografico imbuto e ristanno. Scaricandosi.  Alla faccia di ogni modello matematico previsionale. Allarme o non allarme. E gli studiosi di meteorologia lo dovrebbero sapere da sempre: una delle “peculiarità” di Genova è che nei mesi d’ottobre e novembre ha il “primato nazionale” di intensità di pioggia oraria. Controllare le statistiche.

 

 

Il disastro è avvenuto nella notte del 9 ottobre 2014. Potenza delle coincidenze: già ve ne fu uno analogo il 7 ottobre 1970 (più di cinquanta morti) e il 4 novembre 2011 (sei morti):  per memoria degli eventi più tragici. Tra questi altre periodiche e non numerabili alluvioni, meno devastanti. Sempre disastri, comunque. E nell’ira funesta delle vittime della fangosa melma che il Bisagno scodella in città e che dilaga, anche oggi, come sempre, si cerca coralmente il colpevole. Chi il demiurgo del disastro? Certo, l’incuria dei pubblici reggitori che non si preoccupano di curare l’alveo, la malagrazia dei cittadini che scaricano nel torrente ogni sorta di rifiuto, le incontrollate urbanizzazioni. “Il territorio del genovesato è fragile” – dice oggi il sindaco Doria – “e bisogna preservarlo come un tesoro”.   I genovesi adesso sono furiosi. Più tardi si limiteranno al ron-ron del mugugno. Ma occorre pur ricordare il biblico iter politico-burocratico di un canale scolmatore, progettato e iniziato da oltre quarant’anni e ovviamente mai concluso che, nel caso di piene, farebbe defluire l’onda gonfia del torrente in mare, poco lontano dalla naturale foce del Bisagno. Insomma una valvola di sicurezza per evitare lo straripamento del nevrotico torrente che periodicamente alluviona Genova. E menzionare i trentacinque milioni di euro stanziati per mettere in sicurezza il territorio dopo l’alluvione del 2011 a oggi ancora bloccati dalle celebrate procedure burocratiche. Come a ogni catastrofe le polemiche ovviamente s’accendono. L’ente regione (l’indignato presidente) farfuglia enigmatici messaggi in una lingua privata sua. Il comune (il sindaco), affranto, depreca: “Non si potevano immaginare precipitazioni come quelle di questi giorni”. La colpa è di santa Brigida. L’eterna via di fuga in un metafisico altrove. Dove l’oblio stempera ogni incuria e ogni colpevole malestro. Fino alla prossima alluvione.   

 

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