Harrington Mann, “Ritratto di famiglia con quattro bambini”, 1915 (collezione privata)

La mia famiglia è una bambola

Annalena Benini

Il respiro di mia sorella, la scoperta di non essere sola nella lotta contro i grandi, le nostre specialità femminili (frecciatine e vanità), il desiderio di lanciarsi nel pozzo.

Ieri ho letto in un’agenda del 1993, sotto un biglietto del cinema attaccato con lo scotch (il film era “Scent of a woman” con Al Pacino), questa frase scritta con il pennarello: “Mia sorella è figlia unica”. Avevo diciott’anni, lei dieci e tantissimi capelli, passava dalla mia stanza per entrare nella sua, entrava in bagno quando c’ero io, rispondeva al telefono velocissima quando era ovvio che era per me, non per lei (bambina con i capelli di Mafalda, molla quel telefono), e io non pensavo mai, mentre urlavo: “Fuori di qui”, a quanto profondamente lei fosse la mia famiglia. L’ho vista appena nata (prima dei miei figli, prima di tutto), minuscola e scura, piangeva fortissimo e io pensavo: adesso muore perché le esplode la gola e dovrò dare l’allarme, e quando invece dormiva nella carrozzina mi chinavo a sbirciarla pensando: ecco è morta non respira, devo dare l’allarme. Nel mio ricordo ero preoccupata, anzi molto triste per quella bambina così carina, così piccola, che mi stringeva il dito e mi fissava prima di sporgere il labbro inferiore in avanti e ricominciare a piangere, ma pensavo che forse era meglio non dare nessun allarme, evitare di intromettermi, lasciare che se ne accorgessero i grandi, e avvicinavo di nuovo la mia faccia al suo naso per sentire se respirava e mi sembrava sempre di no, ma forse invece segretamente volevo ucciderla, eliminarla dalla mia famiglia; quell’estate infatti, l’estate dei miei otto anni, mi venne anche un mal di gola costante e probabilmente immaginario, da attenzioni perdute, per curare il quale andavo, accompagnata da mio padre, a fare delle punture dolorosissime e inutili, mentre mia madre girava la città con la carrozzina cercando strade dissestate per fare addormentare mia sorella, ma appena si fermava o provava a sedersi ai tavolini di un bar, lei ricominciava a strillare, trionfante, e mio padre tutta la notte le cantava “Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers”, diceva che con me aveva sempre funzionato, oppure “Sabato pomeriggio” di Baglioni. Era lei, che mi chiamava solo “A” e ha imparato a camminare con la mano nella mia, la mia famiglia, la più vicina, l’unica disposta a considerarmi già grande e libera, e a guardare i film dell’orrore con me, la mia alleata piccola nella guerra contro i grandi, ma io ero, da subito, troppo attratta da tutto quello che succedeva fuori da casa nostra per riconoscere l’importanza di mia sorella, che invece stava dentro casa nostra e quindi, secondo me, non valeva come scoperta del mondo (mia madre diceva che se qualcuno fosse venuto a chiedermi di gettarmi in un pozzo io sarei corsa subito, e mia figlia adesso è così, si getterebbe in qualunque pozzo e io ne sono orgogliosa, ma lei è già molto migliore di me perché nei pozzi porta sempre con sé suo fratello).

 

Se ci penso adesso, alla fiducia con cui mia sorella entrava in camera mia per giocare, o per sedersi sul letto insieme alle mie amiche, con le guance rotonde e il leoncino di peluche in braccio, e alla mia indifferenza (è quella rompipalle di mia sorella, scusate adesso la caccio, sparisci mostrooo), vorrei chiederle perdono su WhatsApp, lei vive in un’altra città, e allora le mando le foto di quando eravamo piccole, mi risponde che aveva una pettinatura che violava i diritti umani (“Ma eri stupenda, sembravi Mafalda”, “Ah, non sapevo che Mafalda fosse stupenda”) e però non mi rinfaccia mai niente, tranne la storia della bambola assassina. L’avevo inventata per tenerla fuori dalla mia camera, e da quel giorno per quindici anni almeno mia sorella ha attraversato la mia stanza correndo, per paura di incontrare lo sguardo di questa bambola orrenda, con un vestito da dama povera dell’Ottocento, già vecchia, con i capelli un po’ grigi e la faccia da bambina, seduta su una sedia a dondolo. Subito dopo averla costretta a guardare con me “La casa 2” nel salotto buio e con la porta chiusa (mia sorella aveva cinque anni ed era adorabile, obbediente, mi ammirava perché ero più grande, credeva a tutto e aveva un imperativo categorico che è diventato il metro di giudizio per tutti: non si fa mai la spia ai genitori), le avevo detto che quella bambola sarebbe scesa dalla sedia a dondolo, di notte, e l’avrebbe sgozzata con un tagliacarte. Fu una cosa crudele, che a me tredicenne sembrava molto divertente: mia sorella ha dormito per anni con la faccia contro il muro per il terrore di questa bambola, la notte sognava i passi che si avvicinavano e si svegliava urlando, io avevo anche elaborato un seguito della storia roteando gli occhi di tanto in tanto per fingere che la bambola si fosse impossessata del mio corpo, e l’unico modo per salvarmi era diventare la mia schiava. In quelle ore di pomeriggio, in cui secondo me ci divertivamo molto e secondo mia sorella la torturavo, con i miei genitori da qualche parte dentro casa o fuori ma lontanissimi, totalmente esclusi, e prima di sentire la Renault 4 rossa di mia nonna che parcheggiava nella via, mia sorella e io eravamo una famiglia.

 

Così, adesso, se penso alla famiglia mi viene subito in mente la bambola assassina (con cui adesso mia figlia spaventa le sue amiche), e la pizza che mio padre faceva la domenica e che mia sorella e io mangiavamo, una di fronte all’altra in cucina, riempiendoci la bocca e aprendola di colpo per far vedere l’una all’altra tutta la pizza masticata. Lo facciamo anche adesso, di solito a Natale, quindi io cerco di sedermi sempre di fronte a lei, sposto i bicchieri degli altri perché ci tengo tantissimo, voglio stare di fronte a mia sorella e spalancare la bocca con dentro tutto il pranzo di Natale senza che gli altri vedano. Mi sembra così di dirle tutto quello che non le dico mai, anche che mi dispiace per la bambola assassina ma che comunque era un bello scherzo. E che so esattamente cosa le succede quando si arrabbia, e quella tentazione fortissima di trovare un colpevole, perché è la stessa cosa che capita a me. A essere una famiglia, infatti, a essere legati stretti succede di leggersi nel pensiero, se si riesce a essere sinceri, se si fa il gioco che facevo sempre a Natale, quando eravamo tutti insieme, con le nonne, i miei genitori, mia zia, mia sorella ancora piccola, e qualche amico o fidanzato che fingeva disinvoltura e veniva radiografato e commentato fino alla fine dell’inverno, spesso con soprannomi terribili, offensivi: facevo finta di essere una telecamera, li guardavo da fuori. Mia madre e sua sorella che ridevano e si raccontavano segreti in cucina, di solito a fine pranzo, e io cercavo di origliare, mia nonna che si indispettiva ma in realtà era felice e esagerava con il vino bianco e si lasciava prendere in giro dalle figlie, oppure era cupa se sapeva che qualcuno stava per partire, l’altra nonna che cercava di farsi raccontare le cose del mondo, voleva vere conversazioni, voleva parlare anche di politica, di Bruno Vespa, voleva fare il pieno di compagnia e nessuno le dava mai abbastanza soddisfazione, o le diceva abbastanza quanto era bella e giovane, mio padre che, travolto da tutte queste donne a cui riempiva i bicchieri (a mia nonna materna ha sempre dato del lei, per cinquant’anni) e a volte indispettito per aver ricevuto da sua madre l’ultimo libro di Bruno Vespa, cercava qualche alleanza superficiale con i fidanzati di passaggio, ma era molto più interessato a noi, che a un certo punto litigavamo, per questo tratto di famiglia specializzato in frecciatine e occhiate, e io di solito piangevo, anche per niente. “La crescita”, diceva mia nonna. Poi passava tutto e qualcuno andava al cinema, qualcuno si addormentava sul divano davanti a “Tutti insieme appassionatamente”, qualcuno andava a baciarsi in piazza Ariostea, mia sorella giocava con i regali (tranne la volta in cui le regalai un carillon a forma di clown che muoveva la testa e glielo misi sul letto, acceso, come in un film del terrore che avevamo visto insieme), un anno mia zia arrivò con il primo neonato, bellissimo, e tutti sapevamo che cosa esattamente fosse accaduto e che cosa si ripetesse continuamente attorno al tavolo del soggiorno, allungato al massimo per farci stare tutti, dove a noi figlie toccavano sempre i posti con la gamba del tavolo che sbatteva sulle ginocchia: la nostra famiglia. Imperfetta, sbadata, egocentrica, con le posate lanciate sul tavolo da mia madre, non appoggiate, proprio lanciate, per significare che nessuno l’aveva aiutata ad apparecchiare, che quello della preparazione del pranzo era un momento di tensione con possibilità alte di divorzio e che io ero tornata troppo tardi a casa la sera prima.

 

[**Video_box_2**]Mia nonna e mia madre hanno trovato sempre capricciosa e inopportuna questa voglia di uscire, di giorno e di sera, questa voglia di partire (gettarsi nei pozzi, diceva mia madre), e così anche adesso ogni volta che prendo il treno o torno tardi la sera mi immagino mentre prendo la rincorsa a occhi chiusi e mi lancio nel pozzo, non un pozzo qualunque, proprio il pozzo che una mia compagna delle elementari aveva in giardino (e mia madre, ogni volta che andavo a giocare da lei il sabato pomeriggio, mi diceva: attenta al pozzo, non ti ci buttare, anche se da cento anni era chiuso con una grata di ferro). La mia famiglia è questa, molto femminile, molto fondata anche su quanto ogni giorno ci sentiamo bruttissime, e mia figlia dice che la mamma, le zie, la nonna sono “molto vanitose al contrario”, perché al telefono diciamo: “E tu come stai? Io un mostro”, significa che va tutto bene. E’ un modo di parlare, di scherzare, di preoccuparsi, di cercare le somiglianze e quindi i colpevoli, di tentare di ribellarsi a quello che si è, senza mai riuscirci davvero. E’ quello che dice mia figlia quando non si diverte: “Mamma, non posso giocare con quelle bambine, parlano di oggetti”, “che cosa significa?”, “parlano di braccialetti, di telefoni, di capelli, mi annoio tantissimo”. A lei piacciono solo le storie. A noi piacciono solo le storie, da quando mia nonna ci raccontava per ore le sue congetture sulla vicina di casa, o la vita dei gatti della parrucchiera, e del marito della parrucchiera, e mia madre e mio padre “facevano i romanzi” sulle colleghe di scuola, quelle con cui mia madre divideva la Dyane la mattina con la nebbia (la Dyane andava scaldata, d’inverno, il motore acceso stava sotto la mia finestra a ululare per dieci minuti, era un po’ come le posate lanciate sul tavolo, un segno inequivocabile di vita attiva) per andare a insegnare Lettere in un paese sul Po. Ognuna di quelle colleghe, la maggior parte delle quali io non ho mai visto, aveva un’avventura, un’ombra, qualcosa di eccezionale, ognuna era un romanzo.

 

E io, che per i primi anni delle elementari avevo ammirato pazzamente la famiglia luminosa della mia amica con il pozzo – molto pia, con il tè e le torte di mele il pomeriggio, la madre sempre sorridente e anzi un po’ estatica, non litigavano mai e una volta mi avevano processato perché avevo detto “porca vacca” cadendo di schiena dall’altalena – mi accorgevo che però loro non “facevano i romanzi”, almeno non quando c’ero io, parlavano di mele e di messe e di buone azioni e di buon esempio, e non andavano al cinema a vedere “Mia moglie è una strega” con Renato Pozzetto e Eleonora Giorgi che rubava i vestiti dal manichino in vetrina solo strizzando l’occhio, e volava su una scopa nel cielo di Parigi in abito da sera. Io invece con i miei genitori sì, e ridevo anche quando non capivo perché si dovesse ridere, felice lo stesso di stare lì seduta al buio, fuori casa, felice come dentro un pozzo. E quando, a tredici anni (molto tempo dopo essermi seduta per curiosità sopra un cactus), mi portarono a vedere “Mignon è partita”, sentii una specie di brivido di riconoscimento, anche di consolazione: era così la famiglia, il casino, la sbadataggine, le parole sbagliate, la lavanda gastrica, il turbamento, le liti, la gelosia. Il tavolo della cucina.

 

L’infelicità, anche. Ed era tutto quello che mi piace anche adesso. Perché, come mi aveva insegnato mia sorella nascendo all’improvviso, quando ormai pensavo che tutti fossero figli unici, e urlando fortissimo, senza che io capissi se respirava oppure no, è lì che comincia la scoperta del mondo. Per appartenenza, per contrarietà, per l’irresistibile desiderio di lanciarsi dentro un pozzo.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.