Mio fratello è figlio unico, per questo la famiglia si sta disumanizzando

Nicoletta Tiliacos

I demografi ci dicono che oggi, almeno in Italia, è più facile che un nuovo nato si ritrovi con un bisnonno che con un fratello o una sorella. Merito dell’allungamento della vita media e colpa della sempre più tardiva età del primo parto.

I demografi ci dicono che oggi, almeno in Italia, è più facile che un nuovo nato si ritrovi con un bisnonno che con un fratello o una sorella. Merito dell’allungamento della vita media e colpa della sempre più tardiva età del primo parto, al quale spesso non ne segue un altro, perché se una donna comincia a far figli a trent’anni e passa è difficile che si affaccino al mondo uno o più fratelli di quel primo nato.

 

La cosa, devo ammetterlo, mi ha sempre procurato una certa inquietudine. Per me, che ho avuto un fratello e due sorelle e che sono la seconda in ordine di apparizione, la famiglia è stata fondamentale e naturale scuola di aggiustamento, di presa di misure, di battaglia e di conquista e di condivisione di spazi vitali e affettivi in una casa molto popolata. Non posso dire, certo, di non aver mai invidiato i compagni di scuola e gli amici figli unici – tra noi sessantenni però non sono molti: siamo i baby boomers per eccellenza – con le loro stanze tutte per sé, gli ultimi dischi usciti subito a disposizione e il telefono di casa non conteso da altri che non fossero mamma e papà (il telefono era solo quello fisso, sistemato sempre in posizione stereofonica, preferibilmente in corridoio, perché tutti sentissero le conversazioni). Ma la mia famiglia numerosa – e comunque già contenuta, a paragone di quella paterna, sei figli, e materna, nove – è stata la prima e infantile occasione di pratica e di contatto con cose che avrebbero trovato il loro nome molto più tardi: responsabilità, cura, pazienza, capacità di attendere il proprio turno, sapere che non si è soli, nel bene e nel male. Il che, ovviamente, non impedì – e non impedisce – litigate epocali, solenni inviti a visitare quanto prima quel paese, sincere dichiarazioni di odio, musi interminabili e perfino botte da orbi tra fratelli. Ma che cosa sia un fratello, ecco, quello lo so. So che cosa significa fare a metà di qualcosa che altrimenti non basterebbe per tutti, so anche che cosa sia aspettare che passi il morbillo nel lettino accanto a quello di mio fratello, con il morbillo pure lui, o dare un’occhiata alla più piccola, nel passeggino, quando mamma ha da fare.

 

Oggi ci si pensa – felicemente o infelicemente – immersi nella più totale e baumaniana liquidità di relazioni e di genealogie, anche per via del disprezzo montante per la famiglia naturale – madre, padre, figli – della quale i legislatori del nulla lavorano per sancire l’irreversibile marginalità e la sicura obsolescenza. Ma forse, quasi più che quello con la madre e il padre – l’ancoraggio a due corpi diversi e complementari, il naso di mio padre e le mani di mia madre, la nozione spontanea della differenza sessuale, perché al mondo ci sono i maschi e ci sono le femmine, ed è una cosa che si impara subito, così come si impara che l’alterità per eccellenza, quella che precede tutte le altre, è quella dei sessi – a “fare famiglia” è proprio il rapporto con i fratelli e le sorelle. Quegli esseri che possono essere tanto simili e tanto diversi da noi. Esseri unici che tuttavia condividono con noi la stessa radice. Li amiamo e/o non li sopportiamo – spesso tutte e due le cose nel giro di mezz’ora – e sono complici provvisori che possono diventare nemici altrettanto provvisori. Ma sono un confine, un’occasione di vedersi nell’altro e di vedere l’altro.

 

Non sarà allora per questo, perché i fratelli non ci sono quasi più – c’è però lo studio di uno dei soliti istituti socio-antropo-psicologici anglosassoni o scandinavi, a spiegare che i figli unici sarebbero più felici perché “non devono competere per avere le attenzioni dei genitori”, e sai che scoperta – che la famiglia sta cambiando pelle fino a diventare irriconoscibile, volatile, fantasmatica? Fino a sparire?

 

I demografi, naturalmente, ci spiegano che probabilmente quanto appena detto significa scambiare la causa per l’effetto. Le famiglie sono sempre più esili e il mondo sta diventando un mondo di figli unici perché, in un certo senso, nella famiglia si crede sempre meno o, al contrario, ci si crede troppo. Punto di arrivo e non di partenza, finisce per essere oggetto di desiderio impossibile o feticcio minaccioso, nella versione che la vuole origine di molti dei mali che affliggono l’individuo contemporaneo. Ecco allora che del legame carnale si sogna di fare a meno – meglio un co-genitore acquisito e zelante o la mamma che ti ha partorito con dolore? – ma allora è come dire che ci arrendiamo alla condizione di monadi, raccontandoci la favola che si tratta della migliore soluzione possibile.

 

Famiglia è felicità massima e massima infelicità, ma le due cose non sono a somma zero. Famiglia è pensare a dieci anni che il massimo della vita è attraversare Roma in macchina, la sera della domenica, dopo aver passato la giornata tutti insieme a casa della nonna, e sentire che nel piccolo spazio dell’abitacolo ci sono mamma, papà e i fratelli, e che siamo tutti insieme e al sicuro. Ci sono quelli che amiamo di più, con i quali anche litighiamo di più. Famiglia è condizione umana, è condizione dell’umano.