"Famiglia colombiana" di Botero

La mia famiglia

Perché bisogna ringraziare il cielo se la famiglia di un tempo non esiste più

Angiolo Bandinelli

Famille, je vous hais!”, gridò, o scrisse, André Gide. Ma Togliatti, quando lo scrittore francese si distaccò dal partito comunista, ironizzò sulle sue tendenze omosessuali. Due posizioni inconciliabili, allora, che oggi si trovano ribaltate perché sono gli omosessuali a esigere il riconoscimento delle loro unioni.

Famille, je vous hais!”, gridò, o scrisse, André Gide. Ma Togliatti, quando lo scrittore francese si distaccò dal partito comunista, ironizzò pesantemente sulle sue tendenze omosessuali. Due posizioni inconciliabili, allora, che oggi si trovano ribaltate perché sono gli omosessuali a esigere il riconoscimento delle loro unioni con l'etichetta di “vera famiglia”. Una bella confusione, per sciogliere la quale non si può più – per dire – sollecitare, come fino a ieri era possibile, l’aiuto della sociologia o dell’antropologia, che codificavano l’esistente. Oggi si può avere persino – e anzi sembra molto diffusa – la famiglia “mononucleare”, un vero e proprio ossimoro un tempo impensabile, perché il “single” era a volte persino sospettato di essere un depravato dedito a pratiche sessuali inconfessabili; veniva persino gravato di tasse più severe.

 

Insomma, non si sa più bene cosa sia una famiglia. Rimiriamo persino con stupore certe ingiallite foto di un tempo, che riprendevano la grande famiglia patriarcale al completo, almeno tre generazioni in sequenza con lo stuolo dei piccoli e piccolissimi schierati davanti ai genitori e sotto l’ala protettrice dei nonni e delle bisnonne. Queste famiglie potevano essere anche il vanto di un paese. Il fascismo le premiava. Le offriva come modello da imitare, le faceva protagoniste di una crescita demografica considerata come il perno essenziale e necessario della potenza d’Italia. Per loro venne creata l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, con sedi capillari ed efficienti nella più sperduta cittadina della penisola.

 

Non ho motivi di odio, come Gide, per la famiglia, che però mi lascia indifferente. Ho vissuto splendidamente per cinquanta anni con una donna dalla quale ho avuto due figli, non ho mai avuto coscienza che la nostra unione costituisse una famiglia. Mi piaceva il rapporto dei sentimenti con quella donna e i miei figli, perché funzionava e mi arricchiva spiritualmente, ma sono stato sempre reticente nel costringere questo rapporto dentro un profilo istituzionale, un considerazione che anzi mi dava persino fastidio, se mai venisse evocata. Una volta chiacchieravo di queste cose, con mia moglie appunto e un suo cugino, un monaco benedettino. Lui ovviamente difendeva la famiglia, io replicai con qualche leggera rabbia, sostenni quella mia idea che almeno il mio fosse considerato un semplice “rapporto” (e non intendevo certamente un rapporto sessuale). La mia ritrosia nasceva forse dal fatto che la mia generazione era quella che, forse per prima, ha visto disgregarsi attorno a sé il concetto di famiglia, la sua realtà più consolidata. Quando mi sposai la prima volta – in chiesa – sapevo di fare quel gesto perché volevo andarmene, appunto, dalla famiglia.Volevo rendermi autonomo. Ma sapevo che, per quanto tormentata e tormentosa fosse, quella in cui ero fino ad allora vissuto era una famiglia, mia madre soprattutto non avrebbe concepito nessun altro modo di vivere (all’epoca, una donna o era sposata o era una zitella). Vivere accanto, insieme e totalmente con il marito era per lei quasi un istinto ancestrale. Ma quando mi separai dalla mia prima moglie, non ebbi in alcun modo il senso di colpa di star distruggendo (e non era questione di chi fosse la responsabilità, se ce n’era) una famiglia. Certo, avevo coscienza che si trattava di uno strappo, una “scissione”, e come tale dolorosa, ma sapevo anche che dovevo, dovevamo separarci, vivere insieme non era più possibile. Letteralmente, il mondo non avrebbe capito perché restassimo uniti. Chi soffrì della rottura fu piuttosto mia madre, che vedeva lacerarsi il mondo dei suoi affetti, e non riusciva a rendersene conto, ad accettare la cosa. Allora non c’era il divorzio, dovetti attendere la sentenza rotale. Per anni. Ma intanto avevo avuto due figli con l’altra donna, la donna della mia vita. Non ero più, però, una eccezione sociale, vicende come la mia erano divenute normali. No, neanche questo è vero, la separazione, la rottura della famiglia erano ancora fenomeni socialmente deprecabili, condannabili. Quando venne fondata (anche con il mio concorso) la Lega Italiana del Divorzio, cominciarono ad arrivare alla nostra sede coppie molto banali, impiegatizie (niente di frivolo, per carità) che volevano iscriversi, “ma – si raccomandavano – non ci inviate lettere o materiale postale… La gente del palazzo non sa che noi non siamo sposati…”. E noi facemmo stampare buste sul cui rovescio c’era solo la sigla “L. I. D.”. La famiglia doveva apparire salda anche se era in pezzi, il divorzio era una calamità, la convivenza un fatto socialmente deplorabile.

 

Se quella era la famiglia normale, standard, non so se sia possibile paragonarla a quella di oggi. Allora, tutte – ma proprio tutte – le certezza erano salde, inattaccabili. La famiglia era semplicemente uno dei fenomeni sociali di una società comunque stabile. Oggi, quando nulla è più stabile, quando il precariato, anzi la precarietà, è l’unico metro, l’unico standard della vita, perché mai la famiglia dovrebbe fare eccezione ed essere – o essere considerata – stabile? Su alcune tombe di donne romane era scritto, “mulier unius viri”, donna di un solo uomo; oggi, non c’è rispettabile moglie che non frequenti un po’ di web e di chat con un uomo che non è suo marito.

 

Comunque, se qualcuno rimpiange la famiglia d’un tempo, si accomodi pure. Tolstoj ha fatto fuoco e fiamme sugli orrori che si consumano “in quelle stanze da letto, in quei letti”. E neppure parlava degli orrori che notoriamente deturpavano le belle famiglie patriarcali d’un tempo. Ancora oggi, statisticamente, la maggior parte delle efferatezze sessuali contro minori e donne si consumano tra le mura della famiglia, protagonisti e vittime i suoi membri, avvolti in una coltre di spesso silenzio e omertà. Figurarsi in quelle famiglie d’un tempo, comunque chiuse a ogni infiltrazione dall’esterno, galassie di entità umane spesso inconfessabili l’una all’altra. Secondo autorevoli antropologi, le malattie mentali, dalla demenza in su, che affliggevano certi antichi abitati rurali, erano causate dalla frequenza di rapporti sessuali, con conseguenti gravidanze, tra membri di una stessa famiglia – o dovrei dire clan? Se ne occupò, credo, Lombroso.

 

[**Video_box_2**]Ho vissuto cinquanta anni con la donna – posso ripeterlo? – della mia vita. Ci incontrammo per caso, per caso cominciammo a frequentarci, diventammo qualcosa più che amici senza pensare che avremmo messo in piedi una famiglia. Non lo abbiamo mai realmente saputo, forse non ci interessava. Gli eventi di quella nostra vita in comune si sono succeduti secondo gli standard più usuali, la convivenza raramente presenta sorprese: c’è chi sostiene che il matrimonio è la tomba dell’amore, cosa che per me almeno non è stata vera perché anche la noia ha le sue raffinate dolcezze. Forse per la coppia, dentro o fuori del matrimonio, i figli sono la sola sorpresa; almeno lo furono per noi, perché arrivarono per caso. Con la mia prima moglie, la figlia arrivò perché allora era ovvio che la coppia che si sposava avrebbe avuto, e subito, un figlio. Era per questo che ci si sposava. Anche quella prima mia figlia nacque però, come si dice, per caso, ma era prevista e aspettata. Il mio amore per la bimbetta fu sempre pari a quello per i figli avuti dalla mia seconda moglie, ma i figli nascono per lo più proprio così, per caso. Almeno oggi. Invece le grosse famiglie d’un tempo, quelle con otto, dieci o magari venti figli i figli li facevano non per caso, ma perché non sapevano come si fa a non farli. Poi magari una buona percentuale dei concepiti moriva, ma allora non c’erano le associazioni che oggi pretendono di battezzare e regolarmente seppellire i feti.

 

Comunque, quella donna che mi ha accompagnato per cinquanta anni divenne mia moglie, un giorno. Con tanto di carte e firme. Nelle fotografie che ci vennero scattate in Campidoglio, si vede che lei quasi non ci credeva, il suo volto era l’immagine stessa dello stupore incredulo. Che ne sapeva di matrimonio, anche se so che in definitiva lo desiderava? Tra noi la paola amore fu pronunciata pochissime volte, l’amore è parola dai significati densi, vasti, spesso misteriosi: il nostro rapporto fu, fin dall’inizio, semplicemente un rapporto empatico. Senza bisogno di parlare, andavamo, appaiati, nella stessa direzione, senza sforzo. Mi tradì? Non lo so. La tradii? Non lo dico. Ma il mutuo rapporto di empatia, di complicità, non si smagliò di un millimetro. Mai. Chissà quante vere famiglie conoscono o vivono un simile rapporto di vicinanza, forse sono troppo impegnate a vivere come famiglia per conoscersi reciprocamente davvero.

 

Probabilmente, costoro non sanno che per vivere bene in coppia bisogna cambiare continuamente. Se tu devi pensare a tenere in piedi una famiglia, forse hai paura di cambiare. Fortuntamente – forse per quella empatia, o complicità, che costituiva il saldo cemento della nostra comune vita – noi due invece cambiammo molto spesso, nel corso degli anni. Rinnovavamo noi stessi, e quindi il nostro rapporto empatico cambiava. Credo si sia approfondito. E adesso che se ne è andata, il rapporto empatico resta, intatto. Io, che non sono – a differenza di lei – un credente, e dunque so che non la rivedrò più, la vivo incessantemente anche adesso. Questo mi è possibile perché ho ancora nelle narici l’odore della sua pelle, e ogni suo minimo gesto mi è ancora significativo. Che strano. Se così intensa fu quella nostra unione mai vissuta come famiglia, chissà cosa sarebbe stato se avessimo avuto la coscienza, la presunzione, di essere, invece, una famiglia.

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