La famiglia che non avrò

Manuel Peruzzo

Mia nonna mi ha salvato la vita. Sono “uno di quelli là” e l’amore di lei per me è infinito. Nonno all’inizio la chiamava Perla, gli ultimi anni la chiamava Carabiniere. Oggi sono io il suo autista, anche se sono un màrtul.

Nonna mi ha salvato la vita. Seienne, guardavo la TV con mia sorella che si era accorta di una cosa bizzarra: non respiravo più. Avevo inghiottito una fragola di plastica, in realtà una penna dall'impugnatura invitante, trovata nella credenza. Mia sorella aveva lanciato l’allarme. L’allarme era Nonna, che non smetteva più di urlare, come la sirena di un'ambulanza, con quelle corde vocali abituate a dar ordini, ora amplificate dal terrore. Mi reggeva per le gambe, agitandomi a testa in giù per il piazzale fuori casa, pregando che non le morissi come un panno da stendere. Ogni volta che me lo racconta sembra sempre una storia nuova, ma la parte che preferisco è quella che non cambia: le gambe pesanti di Nonno. L’Aldo, per puro caso, tornava dal bar, dove praticamente passava le giornate pur di non sentirla lamentare, e sentendola urlare le era corso incontro. Temeva mi avessero investito, e iniziò a correre, e gli sembrò di cadere sotto il suo peso. “L’ha mangià un quej cos. Al respira piö, ha ingoiato qualcosa, non respira”, strilla lei. Lui le dà il compito più importante: "Non mollarlo! Sii forte", poi mi infila l'indice in gola, troppo grosso, i capillari iniziano a scoppiare, Nonna urla e piange. Prova col mignolo, e quelle sue unghie lunghe si rivelano utilissime: estrae la fragola e io torno a respirare. I muscoli delle bracciotte di Nonna si rilassano. Sono salvo. "Da quel giorno ho iniziato a prendere la pastiglia per il sangue", mi ripete ancora oggi.

 

Da bambino, mio nonno era quello che portava me e mia sorella al bar, faceva le parole crociate e ci raccontava spassose barzellette sulle scoregge. Era quello col binocolo con cui sorvegliava i merli che rimanevano bloccati nelle tagliole e che imprigionava in mille gabbie. Quello ultra attrezzato ma che finiva per usare sempre il nastro adesivo per aggiustare ogni cosa (“Ecco fatto; aggiustato!”). Quello con cui andavo a caccia di grilli e che sorrideva con un solo dente, ma lunghissimo e nero. Era alto, magro, aveva sempre freddo e indossava mille maglioni, anche perché Nonna aveva la pressione alta (vero motivo per cui prende le pastiglie), e ha sempre avuto caldo, quindi le sue finestre sono perennemente spalancate. Lo ricordo tossire, sputare “rospetti” nei fazzoletti, lanciarli dalla macchina in corsa, e inforcare gli occhiali aggiustati con lo scotch per fare le parole crociate in quel suo modo creativo: scrivendo sulle caselle barrate. Aveva ragione lui.

 

Nonna era la spaccapalle. Lei era quella che ci impediva di guardare la televisione; che non amava la musica perché le dava fastidio (l’unica canzone che tollera è Vola colomba, e solo se la canta lei); che liberava i merli a tradimento, perché supponeva attirassero i topi (seguivano grandi incazzature di Nonno). Era la tirchia a cui Nonno doveva chiedere i soldi, avvicinandosi spalancando il portafogli, aggiustato con lo scotch: "Sono a secco, Amelia sgancia”. In una scala di valori i soldi per Nonna precedono qualsiasi cosa, non perché sia avida ma perché è terrorizzata di non averne e ritrovarsi come quelli che non hanno mai lavorato, che lei disprezza. È diventato il modo in cui dimostra affetto: ti amo cinquanta euro. Era quella che ci nascondeva il cioccolato (che comunque le rubavamo sempre) e insomma: credevo fosse una stronza. Con Nonno ci divertivamo al bar, chiedendo soldi per i gelati e il flipper; con Nonna no. Se al posto di Nonno fosse morta lei, io non avrei avuto mai modo di conoscerla.

 

Nonno all’inizio del matrimonio la chiamava Perla, gli ultimi anni la chiamava Carabiniere. Era per via di quel carattere forte, vagamente intimidatorio, da nazistella comasca. Quando aveva bisogno diceva: “Aldo, menam da chi e da là e da so e da giò”, si faceva portare ovunque col pandino che sfrecciava per le strade Padane. Il loro matrimonio era diventato questo, un reciproco aiuto quotidiano, sapere di non essere soli, condividendo anche gli insulti.

 

[**Video_box_2**]Ricordo la prima volta che la incrociai sul bus, senza più poteri, come una regina caduta in disgrazia. Tornava dall’ospedale, dove era stata vicina al marito massacrato dai tumori. E fece così ogni giorno fino alle rassicurazioni finali: "Ricordati Amelia, dovrai portarmi tonnellate di fiori al cimitero ma poi verrai anche tu", le diceva l'Aldo. Sono passati quindici anni, ora sono io il suo autista. Il sabato è il nostro giorno. La accompagno a fare la spesa, a volte mi chiama Aldo. Se arrivo e lei non c’è trovo il solito biglietto, che fa più o meno così: “Sono andata a prendere il pane”, o “Sono al cimitero, torno subito”, oppure di cose che deve dirmi, come quando trova una miracolosa pubblicità per far ricrescere i capelli e me la propone (“Non funziona dai”, “Ma tu hai provato?”). La bellezza per lei passa dai capelli, a partire dai suoi che non sono più ricci e selvaggi come quelli di una volta quando “i finanzieri mi guardavano passare per la dogana e andare in Svizzera a lavorare”. Ha lavorato tantissimo, come tutti i suoi cinque fratelli. Fin da piccoli, una vita di sacrifici, di giornate corte in cui alzarsi all’alba e andare a letto presto, risparmiando ogni centesimo dello stipendio da tessitrice per costruire una casa e crescere una figlia. Le spiace tanto che io sia calvo, ha provato anche con l’acqua santa: è salita sullo sgabello e mi ha versato in testa l’acqua di Lourdes. Non ha funzionato, dice che è perché non prego.

 

Oggi ha 89 anni, e non è una nonna qualsiasi. Nonostante mi abbia soprannominato ratìn, topino, è lei che sembra un riccio: bassina (uno e quarantotto, con gli zoccoli a zeppa recupera qualcosa), ha gli occhi azzurri (a cui tiene moltissimo) e i capelli ricci pettinati dal vento; pochi ma gonfissimi. Si veste come un patchwork: ha le scarpe ibride tra una pantofola e uno zoccolo; indossa calzette di lana di un improbabile azzurro elettrico, una gonnellina, l'immancabile grembiule fiorito; se fa molto freddo indossa anche un maglione leggero a righe rosso e nero. Ogni suo vestito è fuori moda da sempre. Vive con un gatto spelacchiato e sdentato vecchio quanto lei, a cui dà la pastasciutta (e si lamenta perché è viziato e non la mangia), e che ogni tanto si ritrova in cucina per rubarle un po’ di carne o per sputarle qualche dente sul pavimento per ripicca. Per quanto finga dispiacere per il lavoro a cui la obbliga una casa grande da pulire, e soprattutto un enorme giardino, con l'edera da strappare a mani nude e i tulipani secchi da estirpare, le piace. La tiene in forma: ha le braccia e le gambe muscolosissime. Il giardino è come lei: confuso, senza un tema, selvatico. «Nonna, ma le tue coetanee indossano ancora la gonna?», chiedo io. «Eh?? son tutte morte, màrtul», strilla.

 

Io sono un màrtul, cioè uno che non sa farsi rispettare, lei invece è una bestia, che è il grado massimo di insulto e di chi ha imparato a vivere. So perfettamente cosa prende al supermercato. I passaggi sono sempre gli stessi. Entra, afferra la pasta e la lancia nel cesto frantumandola, poi esamina una scatola di tonno, la ispeziona e sbotta: “bah, con tutti quei negar che cadono in mare, meglio di no», lo posa, come se avesse mai una volta mangiato il pesce in vita sua. (Ha una riserva di sale marino per i prossimi dieci anni, dice: “Eh con tutti quei barconi, la gente che muore in acqua, sai”.).

 

I suoi gusti son difficili ma precisi: non ci vede e alle diottrie che mancano aggiunge i suoi pregiudizi.

 

Sceglie i formaggi in base alla tonalità di bianco, perché le sembra un buon parametro. Ci mette dieci minuti a scegliere, la salumiera incrocia le mani e dice: "Ah che bravo il suo autista, che pazienza". Nonna sorride e dice “ahhhh il mio Manuel è bravo, ma è senza capelli, prima era meglio ma ha preso lo spavento con il terremoto di quando abitava a Bologna”. Lo dice per giustificarmi agli occhi delle donne, come se sapesse che la prima cosa che pensano è: mio dio che orrore quel pelato. Questo è il momento in cui di solito la blocco e la dirigo verso il reparto verdura dove si mette a indagare sulla provenienza. I pomodori? Piemonte. Uh porcabestia come sono grandi, e parte con la piaga dei pomodori marci nel suo giardino, dieci minuti. Vari colpi di tosse di gente che aspetta. I fagiolini? Emilia Romagna. Ah, che bella, lavorano lì. sì va bene. Vuole essere rassicurata di non ingerire cose straniere o della "bassaitalia", che percepisce come tossiche. Le porto la Nivea, che mette sui nei, sicura che andranno via. Mi chiede se è buona come in Svizzera. La folla dietro di noi ride, siamo salvi. A Nonna piace fare la spesa perché così può attaccar bottone. L’ultima volta vede questa signora anziana, e per lei, che si dimentica di non essere rappresentativa, è una della "Sua Gente", come ama dire, e quindi lancia uno sguardo a una indiana che chiede soldi, e cerca complicità: "Quej lì rovinano l'Italia, chiedono soldi e non lavorano, continuano ad arrivare barcuni! Portano malattie, ho sentito che adesso si prende la malattia dei negri", e sorprendentemente la signora ribatte: "Ma signora, il problema non sono loro, il problema è chi contrabbanda, e poi questa gente non si ferma in Italia, va in Svezia, in Finlandia, nel nord Europa, non vogliono fermarsi in Italia, passano di qui perché l'Italia è uno snodo importante...". A questo punto Nonna, che non ha mai visto Ballarò, non ha capito niente della risposta, è tipo stordita da tutte quelle chiacchiere e già a Svezia non sapeva dove collocarla geograficamente (su? ma se per lei ogni cosa è "in giù di lì"), e quindi, totalmente annichilita risolve con un: "Eh ma dovrebbero smetterla di fare guerre! le guerre sono il male". E nell'orecchio mi fa: "quella lì non è di queste parti".

 

Nonna ci tiene alla provenienza geografica. Quando le chiedo se non ha paura di essere raggirata, lei mi risponde che se parlano come lei non c’è da temere. Si fida solo di quelli che parlano dialetto, e siccome son tutti della sua età è difficile le rubino la pensione. La mia barba non le piace, i miei vestiti non le piacciono, e il mio orecchino è “di quelli là”, di quelli chi?, di quelli culatùn. Le assicuro che non lo sono: perché è quello che vuole sentirsi dire. Non le infliggo la violenza della verità. Non che smetterebbe di volermi bene. Nessuno che sappia dirlo con una frase più semplice di: “hai già mangiato?”. Si muove attorno al tavolo veloce come un’ape, inizia a spadellare, a fare le solite cose che cucina da una vita, e sporca dappertutto. Ma poi rimette a posto, in quella precisione geometrica che lei stessa ha perfezionato in anni. Non importa a quale velocità andrò, dirà sempre “vai piano a mangiare”, perché mi deve raccontare quanto detesta i vicini, e ci vuole tempo. Vuole che non dimentichi, e nell’ultimo biglietto mi ha scritto: Io so tutto, ma non mi ricordo niente. L’altra sua frase preferita è ghé scià nagot.

 

[**Video_box_2**]C’è sempre qualcosa che arriva o non arriva, e di solito si riferisce ai soldi. Ha una mentalità molto americana; per lei il valore di una persona è quantificabile. Dimmi che stipendio hai e ti dirò se meriti di essere ascoltato. Chi non lavora non merita nulla, perché è un fannullone. Di solito ha sempre ragione. Perché se arrivi a 89 anni hai per forza ragione tu.

 

A volte mi guarda e dice: “E quando non potrò più camminare, chi mi guarda?”, io inizio con “una badante rumena”, lei dice: “mi ruba la pensione, mi svuota il frigorifero, mi ruba il collier”, e allora dico che lo farò io. Lei mi guarda e dice: “te non prendi topi manco morti, sei come il gatto”. Che è il suo modo per darmi del rincoglionito. Poi inizia a scrivermi tutte le solite frasi fatte e detti che conosce, perché non vuole che me li scordi (Non c’è ammontare che non finisce, il vendere porta via, parla poco e ascolta assai che giammai ti pentirai, e altre frasi da Frate Indovino). Mi consegna il biglietto e crede che tutto ciò che ha da trasmettermi sia lì dentro, in quella sua scrittura incerta di frasi fatte. Si sbaglia.

 

Ho una sua foto, è poco più di una seienne e posa vicino a sua madre. La guardo e ogni volta penso, chi l'avrebbe mai detto che questa bambina severa e certamente poco studiosa avrebbe vissuto tanto eppure così poco, imparando il necessario non solo per sopravvivere ma per costruire una casa, una famiglia, degli affetti. Una stirpe. Tutto ciò che probabilmente io non farò mai. È grazie a lei se ho una famiglia, se non sono solo, se posso vivere un po' di questo tipo di affetto. Lei, incolta e sempre fuori dal tempo e dalla modernità, non solo ha reso possibile la mia esistenza ma ha creato un rapporto che non si ripeterà mai più, una di quelle cose che accadono in coincidenze rare: si è fatta amare. Né io né lei siamo speciali singolarmente. Non esisterà più nessuno profondamente ignorante, sciocco, intollerante a tutto e a tutti, egocentrico e razzista a cui io vorrò tanto bene e che imparerò a conoscere così bene da sapere esattamente cosa pensa. Perché non vorrò. Perché molto probabilmente non ci sarà quel legame indissolubile, e non perché lo ha deciso una chiesa o il sangue, perché lo ha voluto fortemente lei ancor prima che chiunque altro. Pura volontà. Fortunato chi conosce l’amore di un nonno che non ti opprime con aspettative ma ti regala amore incondizionato. Quando ho tentato di dirle queste cose non ho fatto in tempo a iniziare con "chi l'avrebbe pensato che un giorno tu", che lei mi ha interrotto: "Sì ero bellissima vero? Guarda che capelli!". Io non so niente, ma ricorderò tutto.

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