Gli imbarazzanti palinsesti estivi e la sorprendente attualità di Totò

Pietro Favari

L’estate sta finendo. Fredda, anomala, quasi irriconoscibile come tale se non fosse stato per Totò, presenza costante nei palinsesti estivi. Totò è come un’opera d’arte, con il tempo non invecchia, non passa di moda, ma piuttosto aumenta il suo valore.

L’estate sta finendo. Fredda, anomala, quasi irriconoscibile come tale se non fosse stato per Totò, presenza costante nei palinsesti estivi. Totò è come un’opera d’arte, con il tempo non invecchia, non passa di moda, ma piuttosto aumenta il suo valore. Artista visivo senza necessità dei pennelli, Totò disegna nell’aria con le mani: fuochi pirotecnici sparati in un oscuro cielo immaginario, nature morte ma possibilmente commestibili, o più volentieri nudi di donna dalle forme cospicue come quelle ritratte da Renoir. Del resto la fisionomia deragliata di Totò è come una composizione cubista, costruita su piani che si spezzano e si intersecano alla ricerca di una mobilità della visione: gli occhi folli e maligni, ma anche disillusi e animalescamente inteneriti; la linea della bocca distorta in una smorfia umiliata o beffarda che segue l’assurda e mobilissima sporgenza del mento, sua inconfondibile sigla; il collo snodabile e allungabile; le articolazioni slogate di una marionetta. Totò cubista sarebbe piaciuto a Pablo Picasso, ma Picasso non piaceva a Totò. In “Totò a colori” (del 1952, regia di Steno, il primo film a colori del nostro cinema) il comico napoletano finisce in mezzo ai gagà di Capri, uno dei quali ha dipinto un quadro “à l’imitation de Picassò”.

 

[**Video_box_2**]Profondamente turbato dalla visione dell’opera, l’attore decide di gratificare, a suo modo, l’autore e, dopo una lunga e accurata preparazione, gli sputa in un occhio. “La scienza va premiata!”. Un gesto derisorio, ma radicale come il taglio dell’occhio che Luis Buñuel aveva personalmente eseguito nel suo film “Un chien andalou”: provocatorio invito allo spettatore perché spezzi la visione tradizionale del cinema. Una libertà anarchica della narrazione cinematografica che poi Totò farà sua, sovvertendo nei film la ragionevolezza della trama, secondo una logica disarticolata come il suo corpo di marionetta e memore della struttura “aperta” e inventiva del teatro di rivista da cui proveniva. Cubista nella fisionomia, come artista figurativo Totò si dichiara invece fondatore dell’Assenteismo. In “Totò cerca moglie” del 1950 (diretto, e non a caso, da Carlo Ludovico Bragaglia proveniente dal Futurismo) è per l’appunto uno scultore “assenteista”. Talmente povero da non potersi permettere una modella, è costretto a spiare dal buco della serratura quella di un collega. La forzata privazione di modelle induce Totò a rappresentare proprio l’assenza. “Madre con il bambino che piange” intitola così un blocco informe di marmo: la madre è uscita, “non c’è”, spiega Totò all’attonito Mario Castellani (la sua spalla storica), per questo motivo il bambino piange. E il bambino? “E’ corso dietro alla madre”. L’intatta attualità di Totò nasce anche dalla “assenza” di senso, di fronte a una pienezza di sensi, destinata a restare comunque inappagata: la fame (di cibo, di sesso, di decoro borghese, di lessico: “Parli come bada!”) che percorre febbrile e inesausta il suo cinema.

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