Non esiste nemmeno una cosa cattiva da dire su Lena Dunham che lei non si sia già detta da sola un milione di volte in un milione di scene, usando “Girls” (alla quarta stagione)

Non sono quel tipo di ragazza

Annalena Benini

Essere Lena Dunham, rotolarsi sopra gli uomini, divorare torte in bagno, ridere degli altri e della tua imperfezione. Tutto davanti alle telecamere o in un libro (ma seriale).

Non sono quel tipo di ragazza” (uscirà contemporaneamente in America e in Italia il 30 settembre) è dedicato anche alle vendette che Lena Dunham si prenderà quando avrà ottant’anni. Nel suo memoir confessione (come nelle puntate di “Girls”, giunto alla quarta stagione), Lena Dunham esercita un compulsivo rifiuto dei segreti e della reticenza.

 

E già molto prima degli ottant’anni è riuscita nel difficilissimo obiettivo di ridere degli altri, ridendo per tutto il tempo di sé, e raccontando, di sé, ogni disturbo alimentare, ogni ossessione per la morte a partire dagli otto anni, ogni sbronza, pianto, sesso fallimentare, preservativo usato che penzola da una pianta nella stanza di un campus, uomo lentigginoso e molliccio sopra cui si è avventata da sobria e da ubriaca. Suo padre ha scritto: “Questo libro andrebbe fatto leggere a chiunque pensi di aver capito cosa significhi essere una giovane donna nella nostra cultura”. E sono il padre e la madre di Lena Dunham, e la sorella minore Grace, i veri eroi pazienti di questo nuovo modo di raccontare le storie, e di guardarle.

 

Un capitolo del libro di Lena Dunham, “Non sono quel tipo di ragazza” (uscirà contemporaneamente in America e in Italia il 30 settembre) è dedicato alle vendette che si prenderà quando avrà ottant’anni (“e sarò, possibilmente, la proprietaria di tutti i cigni del lago”). Allora racconterà che cosa le hanno detto gli uomini conosciuti a Hollywood durante il primo folle anno di “Girls”, quando Lena Dunham è passata da essere una nevrotica ragazza wasp con i capelli decolorati e i vestiti di spandex in colori fluorescenti a diventare la sceneggiatrice, regista, attrice protagonista della serie televisiva che ha reso “Sex and the City” un romantico dinosauro da rievocare in certe domeniche di pioggia. La vita quotidiana, il sesso, le chat, i lavori squinternati, l’angoscia e l’amicizia delle ragazze (newyorchesi) del nuovo millennio. Quando avrà ottant’anni Lena Dunham, che esercita in questo memoir confessione (e nelle puntate di “Girls”) un compulsivo rifiuto dei segreti e della reticenza, racconterà che questi uomini (“non me li sono scopati, ma mi hanno urlato contro”) le hanno detto, in ordine sparso: “Dovresti essere più riconoscente”, “Sei diventata proprio graziosa dall’ultima volta che ci siamo visti”, “Sai, molti uomini non sanno gestire una donna di potere”, e qualcuno di essi è passato da una conversazione di tipo professionale alle confidenze sulle insoddisfazioni sessuali con la moglie, o a come la fidanzata del college si tenesse gli stivali addosso, durante, che tradotto significa: “Mia moglie non mi attizza. Tu non sei certo una modella, ma sei giovane e magari sono saltate fuori nuove e audaci mosse sessuali dall’ultima volta che sono stato single, vale a dire nel 1992”.

 

Così, molto prima degli ottant’anni, Lena Dunham è già riuscita nel difficilissimo obiettivo di ridere degli altri, ridendo per tutto il tempo di sé, e raccontando, di sé, ogni disturbo alimentare, ogni ossessione per la morte a partire dagli otto anni, ogni sbronza, pianto, sesso fallimentare, preservativo usato che penzola da una pianta nella stanza di un campus, uomo lentigginoso e molliccio sopra cui si è avventata da sobria e da ubriaca. Ne aveva già fatto un film nel 2010, “Tiny Furniture” (aveva ventiquattro anni) e Nora Ephron le scrisse per complimentarsi, diventarono amiche e questo libro, “Non sono quel tipo di ragazza” (Sperling&Kupfer) è dedicato anche a Nora. Che metteva tutta sé (e tutti i suoi mariti, amanti, amiche, madri, amanti dei mariti) nei film e nei libri, ma mai nel modo totalmente spudorato e nudo di Lena Dunham. Nora Ephron ha sempre mantenuto un’aggraziata distanza fra sé e il suo racconto, Lena Dunham ha fatto a pezzi quella distanza e quel riserbo, mettendo se stessa senza vestiti davanti alla telecamera (per girare scene che scrive lei stessa, in cui rotola sul pavimento addosso a qualcuno, o divora una torta seduta sul pavimento del bagno) e se stessa senza vestiti anche nei pensieri sul sesso, sulla dieta, sull’ipocondria che la portava a immaginare una lenta morte per Aids (“ero forte abbastanza da diventare un’attivista? Come sarebbe stato dover affrontare l’Aids nel mondo industrializzato?”), sulle amiche che si comportano da lesbiche senza esserlo. Sull’ambizione, l’egocentrismo e i problemi di insonnia di una bambina di otto anni che ha imparato la parola “stupro” e la usa in continuazione, e a nove anni ha scritto un voto di castità su un pezzo di carta e l’ha mangiato. Ma quel voto si è rivelato inutile, visto che l’occasione di perdere la verginità non si è mai presentata al liceo, e nemmeno al primo anno di college (“mi sentivo davvero come la vergine più attempata del paese, e forse lo ero, se escludiamo una punk maggiorata di Olympia, Washington, frustrata quanto me”). Caitlin Moran, scrittrice inglese e editorialista del Times, aveva già usato questo modo spietato e affettuoso di raccontare la vita delle ragazze imperfette attraverso se stessa: lei che mangia troppo burro d’arachidi ed è ossessionata e spaventata dalla propria vagina, e dal bisogno di scomparire e allo stesso tempo gridare al mondo: sono qui.

 

[**Video_box_2**]Ma Moran l’ha fatto dai bassifondi di Brighton, autodidatta che legge troppi libri nel letto pieno di briciole, non aveva intorno a sé l’ambizione, il sostegno famigliare, il terapista, il medico olistico, la madre fotografa, il padre “che di mestiere dipingeva peni giganteschi” di Lena Dunham, cresciuta a Soho negli anni Novanta, in un posto dove tutti sono artisti e vanno in analisi tre volte la settimana. Le hanno rinfacciato anche questo, infatti (oltre che di non essere abbastanza magra e sinuosa per stare a tette al vento): avere raccontato un mondo iper elitario, dove chiunque ha girato almeno un cortometraggio porno ed è stato vegano, dove l’affitto viene magicamente pagato e il cibo organico e i vestitini vintage anche, ma non esiste nemmeno una cosa cattiva da dire su Lena Dunham che lei non si sia già detta da sola un milione di volte in un milione di scene, usando “Girls” (alla quarta stagione) o confessando dentro questo libro di avere passato la prima infanzia a inaugurazioni di mostre d’arte con aspiranti scrittori, eroinomani, galleristi, inventandosi con vecchie signore che suo padre quando faceva la monella le infilava una forchetta nella vagina. E’ più di Woody Allen, nel modo in cui non perdona niente di sé e racconta anche del momento umiliante in cui sul set, nuda sotto un tizio, gli ha dato una ginocchiata nelle palle per sbaglio o ha visto un pelo nerissimo che le sta crescendo sul capezzolo, è meno di Woody Allen quando diventa pedagogica, e spiega che vuole aiutare le ragazze a sentirsi meglio, a dire “no” agli idioti e agli stronzi, a non pensare sempre: è colpa mia. Anche se poi è proprio l’effetto che fa: tutto questo sfrenato egocentrismo, tutto quell’ibuprofene e colnazepam in borsetta, insieme alla convinzione di stare sempre, anche durante un’overdose, un’indigestione, la mononucleosi, un licenziamento o un abbandono, dalla parte giusta del mondo, infondono un’insensata allegria e, proprio come scrive Dunham, una sensazione di possibile trionfo. Il padre di Lena Dunham ha scritto: “Questo libro andrebbe fatto leggere a chiunque pensi di aver capito cosa significhi essere una giovane donna nella nostra cultura. Ero convinto di conoscere l’autrice piuttosto bene e ho trovato diverse (non sempre piacevoli) sorprese”. E sono il padre e la madre di Lena Dunham, e la sorella minore Grace (di cui Lena non ha saputo mantenere il segreto per più di pochissimi giorni, e si è ritrovata a urlare in cucina: “Grace è gay!”) i veri eroi pazienti di questo nuovo modo di raccontare le storie, e di guardarle.

Di più su questi argomenti:
  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.