Matteo Renzi (foto LaPresse)

Oltre il caso Violante

Claudio Cerasa

Giustizia e lavoro. Da Damiano a Lumia. Storia di due commissioni pronte a rottamare le riforme Renzi.

Roma. Sulla strada delle buone intenzioni di Matteo Renzi, al di là degli strani giochi legati all’elezione dei membri della Consulta e del Csm, si intravedono due ostacoli forse insormontabili con i quali il presidente del Consiglio dovrà fare i conti quando nelle prossime settimane si ritroverà a valutare lo stato di due provvedimenti importanti sui quali si misurerà il riformismo del governo Bim Bum Bam. Il primo provvedimento è la riforma del lavoro, il secondo la riforma della giustizia. Su entrambi i temi, attraverso un uso sapiente delle parole e anche con alcuni gesti simbolici, il governo ha dato prova di aver imboccato una direzione corretta: non dobbiamo più pensare al mondo del lavoro con l’idea che il sindacato dei lavoratori sia lo specchio fedele dell’universo dei lavoratori (e dunque pazienza se la riforma del lavoro rottamerà anche l’articolo 18); non dobbiamo più considerare il mondo della giustizia come un universo in cui la priorità è muoversi a condizione di non scontentare i magistrati (e dunque pazienza se la riforma della giustizia e le nomine al Csm andranno a rottamare il collateralismo tra partito della sinistra e partito delle procure).

 

Le buone intenzioni di Renzi non hanno ancora però fatto i conti con la realtà dei numeri in Parlamento e nella geografia della maggioranza ci sono due commissioni che vengono osservate con sospetto da Palazzo Chigi e con le quali il Rottamatore dovrà confrontarsi seguendo due possibili itinerari: scendere a compromessi, e svuotare le sue riforme, oppure, sul modello rottamazione di Corradino Mineo, sfidare le commissioni anche a costo di scardinare gli attuali equilibri parlamentari. Le due commissioni di cui parliamo si trovano una al Senato (Giustizia) e l’altra alla Camera (Lavoro). E in qualche modo, i franchi tiratori che negli ultimi giorni in Parlamento hanno marciato contro il governo (vedi il caso Violante: al Pd sono mancati 50 voti dai suoi gruppi parlamentari) hanno avuto, come riconoscono nel Partito democratico, l’effetto di ricordare a Renzi che il governo Leopolda, alle Camere, non sempre ha e avrà tutti i margini di manovra che crede di avere.

 

[**Video_box_2**]Il caso della commissione Lavoro alla Camera è il più clamoroso da prendere in considerazione per studiare la fragile tenuta dei gruppi del Pd. E se è vero che entro metà della prossima settimana i colleghi al Senato dovrebbero approvare senza difficoltà il testo della legge delega che compone il Jobs Act (relatore è Ichino, al Senato la maggioranza ha i numeri in commissione: 13 contro 12), è anche vero che a Montecitorio la situazione è diversa, e c’è un motivo per cui il presidente della commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano, scuola Cgil, può dire ai suoi colleghi “non me ne può fregar di meno dal testo che uscirà dal Senato”. I numeri dicono infatti che a prescindere da qualsiasi testo uscirà dal Senato, anche il più rivoluzionario del mondo, la commissione Lavoro della Camera ha i margini per riscrivere quel testo contando su un fatto elementare.

 

Come da tradizione, e qui va un caro saluto a Bersani, la sinistra ha scelto di affidare il compito di rappresentare il mondo del lavoro a un gruppo di ex sindacalisti e l’elenco dei membri di Pd e Sel nella commissione Lavoro alla Camera è spaventoso: Damiano, ex Cgil, gruppo Pd; Luisella Albanella, ex Cgil, gruppo Pd; Anna Giacobbe, ex Cgil, gruppo Pd; Monica Gregori, ex Cgil, gruppo Pd; Patrizia Maestri, ex Cgil, gruppo Pd; Antonella Incerti, ex Cgil, gruppo Pd; Giorgio Piccolo, ex Cgil, gruppo Pd; Giuseppe Zappulla, ex Cgil, gruppo Pd; Giorgio Airaudo, ex Fiom, gruppo Sel; Titti Di Salvo, ex Cgil, ex Sel, ora Gruppo misto; Marialuisa Gnecchi, ex Cgil, gruppo Pd; Cinzia Maria Fontana, ex Cgil, gruppo Pd (Fontana ha preso il posto di Bellanova, anche lei ex dirigente sindacale). Su un totale di 21 deputati Pd in commissione sono 10 gli ex sindacalisti che non vogliono stravolgere l’attuale mercato del lavoro e sarà dunque complicato (impossibile?) per il segretario riuscire a imporre una forma innovativa di contratto unico a tutele crescenti. Un discorso simile vale per la Giustizia al Senato, dove in commissione il Pd è ostaggio di un gruppetto di gioiosi manettari (Felice Casson, vicepresidente della commissione; Giuseppe Lumia, capogruppo in commissione; Sergio Lo Giudice, membro della commissione) che spesso triangola con gli amici a 5 stelle. Anche qui, quando sarà, la riforma della giustizia dovrà fare i conti con i numeri impietosi delle commissioni. E il caso Violante, da questo punto di vista (anche se nell’elezione a rilento dei membri di Csm e Consulta il vero dato è la fragilità del gruppo di Forza Italia), è stato solo un assaggio di quella anarchia feudale e parlamentare che potrebbe dirottare il viaggio del governo Leopolda.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.