Totò Riina (Foto Lapresse)

Lost in Riina

Guido Vitiello

Gli americani hanno “Lost”, noi abbiamo la trattativa Stato-mafia, e magari fosse solo una boutade. E’ tempo di congedare con onore la vecchia formula di Soulez Larivière, “circo mediatico-giudiziario”. Il processo si avvia a diventare una strana e raffinata forma di “transmedia storytelling”.

Gli americani hanno “Lost”, noi abbiamo la trattativa Stato-mafia, e magari fosse solo una boutade. E’ tempo di congedare con onore la vecchia formula di Soulez Larivière, “circo mediatico-giudiziario”, che alludeva a uno spettacolo pacchiano fatto di leoni, domatori, trapezisti e pagliacci; tutto questo è ormai alle spalle, e il processo si avvia a diventare una strana e raffinata forma di “transmedia storytelling” o narrazione transmediale (“Lost” ne è l’esempio più celebre); ossia, una storia raccontata attraverso diversi media – film, serie tv, romanzi, fumetti, videogiochi – che cooperano per dar forma a un universo narrativo labirintico, disseminato, capace di espandersi all’infinito e in ogni direzione grazie anche al contributo attivo dei fan. Nel caso della trattativa Stato-mafia manca il videogioco (arriverà, prima o poi: “I predatori dell’Agenda perduta”), ma la logica è pressappoco la stessa.

 

Le udienze del processo, ossia le ideali puntate di questa fiction “ispirata a una storia vera”, sono tutto sommato la cosa meno importante, e anzi le aule di giustizia, per dirla con Ungaretti, hanno il languore di un circo prima o dopo lo spettacolo. E’ fuori, su altri canali che si dipana la narrazione della trattativa, che ha per produttore e regista la procura di Palermo e si avvale di un alacre reparto sceneggiatura che Massimo Bordin ha correttamente identificato nel Fatto quotidiano e nella redazione palermitana di Repubblica. Questo vasto universo romanzesco si alimenta di libri, memoriali, film, inchieste, siti web, pagine Facebook curate dai fan. In esso possono confluire pezzi di vecchi processi già finiti in assoluzione, ipotesi investigative scartate, indagini bloccate sulla soglia del rinvio a giudizio, mozziconi di verbali e di intercettazioni, insomma tutto quel che si può pescare o ripescare in rete. Ma l’originalità del “transmedia storytelling” giudiziario si deve a due generi in particolare: i libri-intervista dei magistrati sulle inchieste di cui sono titolari, che consentono di arricchire l’universo narrativo divulgando congetture non suffragate da sufficienti prove; e, più di recente, un nuovo format di reality carcerario che si potrebbe depositare alla Siae con il titolo “L’ora d’aria”. Funziona così: si mette la belva in gabbia al 41bis perché non possa comunicare con il mondo esterno; poi però gli si affianca una spalla, lo si fa blaterare, imprecare e minacciare il più possibile; infine si riversa tutto in prima pagina.

 

L’effetto, ha osservato Giovanni Fiandaca, è quello di formare “un patrimonio conoscitivo alla cui nascita e al cui consolidamento contribuiscono indifferentemente dati di realtà e dati ipotetici, conoscenze processuali e rappresentazioni più o meno romanzate. Alla fine di questa complessa costruzione sociale, supportata dal potente avallo dei media, ecco che la trattativa diventa una verità di senso comune: non importa se come realtà o come mito”. In altre parole, si crea un “canone” narrativo espanso di cui gli atti processuali non sono che una parte, e neppure la principale. E veniamo, di passaggio, al film di Sabina Guzzanti “La trattativa”, presentato mercoledì a Venezia. Di per sé, non metterebbe conto parlarne (è una piccola pseudo-inchiesta inquisitoria con un gusto a metà tra il Bagaglino e il Travaglino); ma diventa interessante se lo si considera come una sorta di “fan fiction” che vive di un rapporto al tempo stesso creativo e parassitario con questo canone narrativo. Dice la Guzzanti – senz’altro in buona fede – che “La trattativa” è inattaccabile, che tutto è scrupolosamente documentato, anche se il film si apre con la bufala del 41bis revocato a più di trecento mafiosi e prosegue al ritmo di una manipolazione ogni sette-otto secondi. E in effetti tutto, nel film, trova preciso riscontro: non già nei dati accertati, ma in quel canone che comprende, sullo stesso piano delle risultanze processuali, i libri-intervista di Ingroia e i fotoromanzi di Santoro.

 

La fiction, non c’è da dubitarne, avrà ancora molte puntate. Il rischio è che, il giorno della sentenza, i suoi fan si trovino a fare i conti con un finale più deludente di quello di “Lost”. Ma anche allora continueranno a raccontarla, e a raccontarsela.

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