Omicidio al Foro Italico di Palermo, durante la seconda guerra di mafia (archivio Scafidi)

Bye-bye trattativa

Massimo Bordin

Udienza dopo udienza si affloscia il maxiprocesso sul patto tra stato e mafia. In ritirata pure i giornalisti che facevano da corona a Ingroia. Nel giugno dello scorso anno si apriva un processo monstre con l’ambizione dello spartiacque. Come quello ad Andreotti.

Il grande processo è andato in ferie giusto a metà luglio. Ferie lunghe, come l’anno scorso. Se ne riparlerà a fine settembre. Naturalmente non è che nel frattempo tutte le aule del tribunale di Palermo siano occupate. E nessun imputato ha messo in atto cavillose tattiche dilatorie. E’ che funziona così, tenetene conto quando leggete dei tempi della giustizia italiana. Qui poi stiamo parlando non di un qualsiasi processo ma del “processo allo stato”, il famoso processo sulla “trattativa fra stato e mafia”. Può essere interessante fare, approfittando della molto generosa pausa estiva, un confronto fra quello che è effettivamente successo in aula e le aspettative e il battage mediatico che il processo già nella primordiale fase di indagine aveva scatenato. Si può anticipare intanto una caratteristica di tipo generale che nel caso specifico non viene smentita. In Italia ormai da tempo quello che succede nelle aule è un risvolto marginale di una questione già esausta. Le eccezioni a questa regola sono scarsissime e fra esse non c’è questo processo che si dimostra una formidabile conferma della regola generale. Certo nel giugno dell’anno scorso quando il processo iniziò nella degna cornice dell’aula bunker dell’Ucciardone, il pubblico era quello delle grandi occasioni. Non mancavano gli inviati dei quotidiani nazionali e le telecamere di tutti i tg. E c’erano naturalmente quelli del movimento “agende rosse” alla ricerca di photo-opportunity con Massimo Ciancimino. Del resto quella prima udienza era il coronamento di una lunga, lunghissima indagine istruttoria che aveva scandagliato un periodo di quindici anni, dall’omicidio di Salvo Lima alla cattura di Bernardo Provenzano. Un periodo che aveva generato, con le stragi e le indagini sulle stragi, altri processi che via via entravano nell’istruttoria del grande processo come in una matrioska. Inevitabile dunque che, per arrivare a quella mattina di giugno all’aula bunker per la première, ci fosse voluto del tempo. Quello che si apriva era un processo monstre, con l’ambizione dello spartiacque. Un po’ come vent’anni prima quello a Giulio Andreotti.

 

Più di una similitudine è possibile fra i due eventi giudiziari. In entrambi la dichiarata volontà di riscrivere la storia d’Italia, al di là dell’esito giudiziario del processo. Gli accusatori di Andreotti pubblicarono con un editore napoletano la loro requisitoria intitolandola “La vera storia d’Italia”. Il procuratore aggiunto Vittorio Teresi, che attualmente guida l’accusa nel processo sulla trattativa, ha recentemente citato proprio il caso Andreotti come esempio di un processo utile a comprendere vicende storicamente rilevanti, al di là del suo esito giudiziario in fondo misero per l’accusa: una assoluzione e un reato prescritto. Si può pensare che un approccio del genere sia una forma di cautela del procuratore aggiunto, quasi un mettere le mani avanti sull’esito del processo in corso, e probabilmente non ci si sbaglia. Ma dovrebbe far riflettere di più la concezione dell’avvio dell’azione penale che un criterio del genere sottende. “Questa vicenda ha segnato la storia politica e ha lasciato come sempre zone d’ombra su di essa. Una inchiesta giudiziaria consente di rischiararle con mezzi coercitivi di cui gli storici non dispongono”. Questo il criterio. Uno storico in toga, un pm saggista. Definizioni che si attagliano perfettamente al protagonista principale dell’inchiesta in tutta la sua fase istruttoria: il dottore Antonio Ingroia, di cui Teresi è il successore. Con l’inchiesta sulla trattativa Ingroia spinge all’estremo il criterio della curiosità storica sostitutiva della più tradizionale “notitia criminis” per l’avvio di una azione penale. Con la stessa logica apre una indagine sulla morte del bandito Giuliano e ne fa disseppellire la salma sulla base di un esposto di due “autorevoli storici”: uno storico dilettante nipote di una vittima della strage di Portella e un venezuelano sceneggiatore di telefilm. Nell’esposto producono un ritaglio di un giornale americano degli anni Cinquanta. L’esito è tragicomico. Ma non basta a far venire dubbi all’opinione pubblica sulla fondatezza dell’indagine sulla trattativa, perché se l’inquisitore è lo stesso, qua ci sono imputati in carne ed ossa e sono un pezzo di personale politico della prima Repubblica, un importante berlusconiano come Marcello Dell’Utri,vertici del Ros dei carabinieri e i più feroci capi mafia.

 

Politica, mafia e militari una triade capace di ordire trame volte alla reciproca autoconservazione coprendo a vicenda le proprie malefatte. L’accusatore nega di essere mosso dalla volontà di scendere in politica e si definisce “un magistrato partigiano, sì, ma della Costituzione”. Lo dice per la verità a una riunione di partito, quello dei comunisti italiani, ma nega recisamente l’ipotesi di una sua candidatura. Poi il colpo di scena del Guatemala, che gli consente di poter spaziare a tutto campo nelle interviste non essendo più nominalmente titolare della inchiesta che sta avviandosi al vaglio del gip. Una piedigrotta di dichiarazioni che tornano utili nel momento in cui l’inchiesta in difficoltà per le traversie giudiziarie del superteste Ciancimino jr. gode del massimo risalto mediatico con quello che il Fatto chiama subito il “Romanzo Quirinale”, sobriamente paragonando la presidenza della Repubblica alla banda della Magliana. Impatto altissimo sull’opinione pubblica di una vicenda, quella delle telefonate di Nicola Mancino a Giorgio Napolitano, processualmente irrilevante a detta degli stessi pm. A completare il quadro, contraddicendo le sue stesse assicurazioni Ingroia fonda un partito e si candida alla presidenza del Consiglio senza riuscire nemmeno a essere eletto deputato.

 

Viene da pensare a quanto sia singolare la vicenda di un’indagine presentata come “storica” dall’informazione – soprattutto la Repubblica, malgrado lo scetticismo di Scalfari, il Fatto e La7 di Mentana e Santoro – e come tale percepita dal pubblico malgrado gli evidenti limiti, gli infortuni e il comportamento palesemente contraddittorio degli stessi inquirenti. Il processo dunque dovrebbe diventare la verifica fattuale nella sede propria di quanto libri, articoli e talk show erano andati prospettando durante gli anni in cui è durata l’inchiesta. E invece dopo “il giorno della prima” è come se qualcuno avesse deciso di staccare la spina sul processo, o meglio su quello che succede nelle udienze. Eppure sono successe cose interessanti. A cominciare dalle primissime udienze quando la corte respingendo la costituzione della parte civile per l’omicidio di Paolo Borsellino, spiega di non rivelare un “nesso eziologico” fra la strage di via D’Amelio e il tema del processo. In parole povere i giudici dicono di non essere affatto convinti che Borsellino sia stato ucciso perché aveva scoperto la trama della trattativa.

 

La vicenda di questa parte civile negata con quella motivazione è un buon esempio di come si sia subito attivato anche in questo il meccanismo che cercavo di descrivere più sopra. La decisione dei giudici è nel migliore dei casi appena citata nel corpo degli articoli di cronaca come un mero aspetto procedurale mentre i commenti, le interviste ai pm, i talk show in tv continuano a offrire a lettori e spettatori la interpretazione dell’accusa come verità praticamente assodata omettendo il particolare che i giudici hanno già fatto capire che secondo loro è invece una tesi tutta da dimostrare. Lo schema, che si può definire come “l’irrilevanza del dibattimento”, viene praticato fin dalle fasi preliminari dai rappresentanti della pubblica accusa in prima persona, quando, alla fine di una delle prime udienze, il pm Antonino Di Matteo annuncia in modo dimesso, insomma senza fanfare, che la procura chiede la acquisizione di “attività integrative di indagine” che esibisce alle parti. Si tratta di uno strano verbale di interrogatorio fatto in procura a due agenti del corpo speciale della polizia carceraria, sulla base di un loro rapporto in cui si parla di frasi pronunciate da Riina nel corridoio che lo riporta in cella dopo aver seguito in una saletta del carcere il processo in video conferenza, secondo le norme del 41 bis. Frasi sconclusionate pronunciate da un imputato fuori dal processo e senza la presenza del suo avvocato.

 

Dunque di utilizzazione processuale assai dubbia. Ma nei titoli dei giornali fanno un figurone. “Sono stati loro a cercarmi, non io”, è il virgolettato che deve mostrare come il capomafia fosse stato contattato per la trattativa. Vero è che sicuramente lo cercarono, ma una volta trovato lo arrestarono altro che trattativa. Così su via D’Amelio “c’erano i servizi segreti e si presero l’agenda rossa” fa titolo, solo però omettendo che poi Riina aggiunge che con quella strage la mafia non c’entra. Il che è francamente troppo anche per il dietrologo più incallito. Insomma roba inutilizzabile, processualmente inutile, che però l’estate scorsa segnò l’inizio di una saga che tenne banco fino all’inverno e all’inizio di quest’anno con le famose intercettazioni nel cortile di un carcere speciale in cui il vecchio boss si sfoga con un contrabbandiere pugliese che gli hanno messo accanto per tenergli compagnia. “Quel pm Di Matteo ce l’ha con me. Ma io lo faccio saltare in aria come ho fatto con quegli altri! Perché il capo sono ancora io, mica quel tale Messina Denaro!”.

 

Immediata parte la solidarietà al pm minacciato e per tutto l’inverno fino ai primi mesi di quest’anno la questione tiene banco molto più di quello che avviene nel processo propriamente detto. I filmati di Riina e le sue registrazioni è il nuovo serial di successo che sostituisce quello, ormai esauritosi, delle telefonate di Mancino al Quirinale che aveva tanto funzionato l’estate precedente. Fuori dall’aula però sono successe anche cose spiacevoli per l’accusa, dall’ennesimo arresto del superteste Ciancimino jr. , perennemente alle prese con accuse relative al patrimonio paterno che appare e scompare in varie parti d’Europa; alla netta critica, nel metodo e nel merito delle accuse, da parte di due fiori all’occhiello della cultura di sinistra siciliana come il giurista Giovanni Fiandaca e lo storico Salvatore Lupo. Sono tutte cose note, come l’altra tegola caduta sulla accusa attraverso la sentenza di assoluzione del generale Mori in un processo parallelo a questo che potremmo definire principale e riassuntivo.

 

Ma il problema vero che, dopo due estati, il processo sulla trattativa evidenzia è che succede pochissimo. Gli interrogatori ormai si susseguono ma il loro senso è impalpabile. Talvolta si supera il grottesco come quando viene sentito il primo pentito. Francesco Di Carlo, un mafioso di Altofonte, gestore di un night club palermitano negli anni Sessanta poi espatriato a Londra e lì arrestato per traffico internazionale di droga. Estradato in Italia e subito pentitosi è stato sentito dalla procura di Palermo in vari processi. Da ultimo come nuova carta da giocare in quello di appello sull’omicidio De Mauro per ribaltare la sentenza che aveva assolto l’unico imputato, il solito Riina. Di Carlo ha deposto, Riina è stato di nuovo assolto. Non di meno al processo trattativa è stato il primo dei pentiti ad essere sentito. E richiesto di approfondire un suo verbale in cui parlava di una riunione a Roma con Lima, ha subito cominciato a dire che “la riunione, ora che mi ricordo non era a Roma ma al Circeo. Lima non c’era, stavo con Ignazio Salvo e col generale Santovito, capo del Sismi e amico mio, tanto che lo chiamavo Peppino. Si trattava di organizzare un golpe. Il golpe Borghese. Era il 1980”. A quel punto il pm, probabilmente maledicendo fra sé l’idea di averlo chiamato a testimoniare, obietta con un filo di voce che il golpe Borghese è del 1970 e quello, implacabile, replica: “Appunto dico. Dopo dieci anni si intendeva riprovarci”. Peccato che Borghese sia morto nel 1974.

 

Gaspare Spatuzza è tutt’altro personaggio. Pentito chiave per il processo sulla strage di via D’Amelio perché ha sbugiardato, fornendo prove, i pentiti presi per buoni dall’accusa, rappresentata da Di Matteo che all’epoca era a Caltanissetta, in questo processo serve ai pm per la posizione di Dell’Utri. Nella sua deposizione conferma quello che aveva detto già in molti altri processi. Aggiunge solo una cosa. Un colloquio investigavo prima del suo pentimento con il procuratore di Palermo, Pietro Grasso, oggi presidente del Senato, e Pierluigi Vigna, allora procuratore nazionale antimafia. Lo vogliono fare parlare di Berlusconi ma lui si sottrae. Né parla del Cavaliere e di Dell’Utri nei suoi primi verbali di pentito. Ne parla solo mesi dopo. Perché? Gli domandano gli avvocati. Una domanda che gli era stata fatta anche in altri processi. Stavolta risponde e dice: “Seppi che i pm di Palermo erano pronti a concedermi il programma di protezione e ho pensato di dover chiarire alcuni ‘omissis’ su Berlusconi e Dell’Utri”. Messa così sembra un capitolo della trattativa stato-mafia ma a parti invertite. In questo caso il criterio della irrilevanza dell’aula ha funzionato attraverso i titoli dei giornali: “Spatuzza conferma le accuse a Dell’Utri e Berlusconi”.

 

Quanto agli altri pentiti sono sfilati personaggi singolari. Rosario Naimo che ha militato a lungo nella famiglia di New York come amico di Riina, ha detto che tornato in Italia e chieste spiegazioni al boss sulla annunciata strategia stragista, Riina avrebbe risposto ai suoi dubbi dicendo: “Vogliono così”. La terza persona plurale fonderebbe la conferma di mandanti esterni secondo l’accusa, anche se non si può escludere la possibilità che Riina volesse semplicemente dire che la maggioranza dei mafiosi era d’accordo con lui. Quanto ai pentiti si può infine osservare che, almeno per alcuni e già ne abbiamo visto un caso, le loro precedenti performance avrebbero forse sconsigliato un loro uso. Ancora un esempio: Stefano Lo Verso, mafioso di Ficarazzi. In una sentenza, quella già citata della seconda assoluzione di Mori, è così descritto: “Un teste di insufficiente attendibilità, da valutare con estrema diffidenza nelle affermazioni relative a fatti che trascendono la sua modesta routine criminale”. I capimafia di Bagheria hanno parcheggiato Provenzano latitante a casa sua, ma lui ci ha messo qualche mese a capire chi si teneva in casa. Insomma, non precisamente il più sveglio di tutta la compagnia. Davanti alla corte d’assise ha raccontato che Provenzano gli aveva parlato dei suoi rapporti con Dell’Utri e altri politici di Forza Italia. E che Andreotti era il beneficiario politico delle stragi del ’92. Ora, a parte il fatto che da quello che poi gli è successo non parrebbe tanto, su Andreotti tutti gli altri pentiti dicono l’esatto contrario.

 

Oltre i pentiti, i politici e i grand commis del Quirinale, che ci hanno portato fino alla pausa estiva. La questione delle telefonate di Mancino era già stata sviscerata e sezionata prima ancora della fase di rinvio a giudizio. Processualmente si è anche in aula dimostrata del tutto irrilevante. La procura, rappresentata per l’occasione dal sua capo, ha fatto sfoggio di inquisizione minuziosa e verve polemica, ma nulla ha potuto trarre di utile e tanto meno di penalmente significativo dalle risposte dei consiglieri di Napolitano. Né nulla di sostanziale ha eccepito. Quanto ai politici della Prima Repubblica, la fluviale deposizione di Enzo Scotti, testimone tenuto in gran conto dalla procura, ha molto democristianamente accontentato sia l’accusa che la difesa. Mentre il passaggio più significativo della testimonianza di Giuseppe Gargani, all’epoca luogotenente demitiano in commissione Giustizia alla Camera, si è avuto quando il pm chiedeva dell’avvicendamento al Viminale fra Scotti e Mancino, ritenuto dall’accusa funzionale allo sviluppo della trattativa, e Gargani rispondeva che il problema era creato non dalla mafia ma da Gava che voleva un doroteo in quella casella e De Mita si opponeva. Tutto si risolse con l’elezione di Gava a presidente del gruppo al Senato, favorita da De Mita che ottenne Mancino al Viminale.

 

Il pm non si capacitava di come a due settimane dalla strage di Capaci il problema principale per la Dc fosse la sistemazione di Gava, e certo in astratto non aveva torto. Ma non lo aveva nemmeno il concreto Gargani, dal suo punto di vista. E’ stato uno dei momenti più interessanti e rivelatori di quasi due anni di un processo che, iniziato col tutto esaurito, vede il suo pubblico via via lasciare la sala. Può essere che torni ad affollarsi alla ripresa autunnale quando la corte dovrà decidere se davvero intende sentire come teste il presidente della Repubblica.

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