“Parlamento in piazza!”, ha detto Beppe Grillo. “Parlamento in piazza!” hanno disposto i Cinque stelle in rete. Ma piazze e basta oppure spiagge e magari laghi e monti?

La rivoluzione vien dal mare

Stefano Di Michele

Non solo i grillini. Gli arditi della resistenza invadono le spiagge per fermare Renzi sul bagnasciuga.

Piazzato dentro un comodo e ampio costume ascellare, il cittadino senatore Crimi Vito Claudio – dopo epica trasvolata col regionale Roma-Ladispoli – si aggirava sulla spiaggia del litorale. Barattolo fresco di aranciata San Pellegrino (per via dell’evocativa stella sulla confezione) in mano, vero antemarcia dell’ultima indicazione di Beppe (alle piazze! alle piazze!) si era temerariamente spinto oltre: dopo aver visionato, nella calura di agosto, la desolazione di piazzale dei Martiri (ove si recò, dopo attento studio dello stradario locale, a motivo dell’intitolazione del piazzale stesso, “Martiri come il martirio della nostra Costituzione!”, si disse), gli sovvenne l’immagine di possibili indignati sotto l’ombrellone. Esortò gli altri Cinque stelle all’ombra sospirosi, “li fermeremo sul bagnasciuga!” – intesi Renzi e i suoi puzzoni che stavano accoppando la democrazia. Fu così che giunse a Ladispoli – pensando, peraltro, di essere arrivato nella ben più evocativa Anzio, per via del democratico sbarco United States. “Scusi, signora, siamo ad Anzio?”, chiese alla vecchia che vendeva grattachecche sul lungomare, sentendosi piuttosto VI Corpo d’Armata. “No, fijo, stamo a Ladispoli… Che ce vò su la grattachecca, er limone o l’amarena?”. Pensò, il senatore Crimi, che comunque un campo di battaglia l’altro valeva, e lo stesso si inoltrò con passo deciso sulla rena infuocata – tirando in dentro la pancia, a ragione di un sempre possibile streaming – ripensando alle fermissime parole pronunciate qualche giorno prima nell’emiciclo di Palazzo Madama: “Questo è il momento di tirare fuori le palle!”. Sotto il primo ombrellone la signora Ines scoperchiava proprio allora la pirofila con le melanzane alla parmigiana. Statuario e solenne, il senatore Crimi si piazzò al suo fianco, rilanciando l’allerta: “La democrazia rischia! Questo è il momento di tirare fuori le palle!”. La signora lo fissò per un secondo perplessa, indecisa se mettere in salvo le fettine panate, poi con garbo chiese: “Scusi, e lo vuole fare adesso? Ce so’ pure le creature, laggiù… Sta bono, fijo, nun tirà fori niente, che me pari già der colore der supplì…”.

 

Fu un agosto impegnativo, per i grillini di tutta la penisola, quello del 2014. “Parlamento in piazza!”, aveva detto Beppe. “Parlamento in piazza!”, avevano disposto quelli in rete. Ma piazze e basta, oppure spiagge e magari laghi e monti – che son giorni di transumanza, e son villeggianti pure i difensori della democrazia? “Prove tecniche di dittatura”, si sa – ragazzi meravigliosi (grazie, Beppe, grazie!) che altro non siete, dai campi e dalle officine e da Palazzo Madama mettetevi in moto, in difesa della democrazia pedalate! Estate eroica. Dove non solo i grillini scesero in piazza e sull’arenile, ma pure quelli del Fatto – che nella difesa democratica languivano sulle 200 mila firme, contro le 500 mila dell’anno precedente – furono precettati, a vigilanza e a relativo ammasso, presso svincoli autostradali, baite di montagna, piazzole di sosta per camperisti e camionisti e trans. Solo per Peter Gomez – tale il nome, tale si suppose la conoscenza linguistica – fu fatta apposita deroga internazionalista, con incarico di raccogliere adesioni in terra de España, a San Pedro del Pinatar. Invece per Antonello Caporale non ci fu pietà: dopo che per mesi e mesi aveva allietato i lettori sullo stato delle italiche ferrovie, peraltro non meno deplorevole di quello della democrazia tutta, fu stabilmente allocato fino a settembre, con banchetto e megafono, presso l’atrio della stazione di Casacalenda-Guardialfiera (Campobasso). “Voglio andare con Beatrice Borromeo a Portofino, pure lì la democrazia corre pericolo…”, mormorò Antonello con la lacrima al ciglio. Ma il direttore Padellaro fu irremovibile: “Ti esorto a considerare la linea di Campobasso, e raccomando alla tua attenzione pure la stazione di Montenero-Petacciato, quale linea Gustav del nostro impegno come Renzusconi! Poi, con la vendemmia, verrà a darti il cambio Fabrizio d’Esposito…”. Che estate, l’estate del 2014: tutti i rivoluzionari al lavoro, tutti i difensori della democrazia impegnati, tutti i protettori della Costituzione all’opera. Fu una mobilitazione che altro che quella di cento anni prima per la Grande guerra: a frotte, a grappoli, o in solitaria avanscoperta, ci si mosse. Un gruppo di arditi grillini, suggestionati dall’evocazione marinara di Crimi, e traviati dal nome, si incamminarono decisi verso Massa Marittima, per ritrovarsi praticamente in Maremma, tra le Colline Metallifere e il fiume Pecora. Di onde e ombrelloni e bagnanti manco l’ombra. “E il Tirreno?”. “Sarà un effetto della riforma del Senato di Renzi?”. La rete lanciò l’allarme, il 71 per cento dei votanti ordinò lo stesso ai suoi cittadini eletti di perseverare nella ricerca del mare in loco, che certo la casta aveva occultato o sperperato. Altri cittadini senatori e deputati furono più accorti, e già in marcia verso Milano Marittima fecero immediato dietrofront. “Non facciamoci fregare, ragazzi: per ingannarci hanno messo la parola Marittima, ma avete fatto caso che si sono dimenticati di togliere Milano, eh? Si credono furbi…”. “Ci temono. Lo sanno che li apriamo come una scatoletta di sgombri, volevano farci arrivare a Pozzuolo Martesana… Ma la pacchia è finita”. Informarono Beppe del sordido tentativo. “Adesso dove andiamo?”. “E che ne so? Basta che non venite a rompermi i coglioni qui a Sant’Ilario… Chiamate Casaleggio!”.

 

Quell’estate non uno restò insensibile al grido di dolore della democrazia. Furio Colombo si accasò a Capalbio (piazza di). Marco Travaglio andò in tournée (piazza dove). La cittadina eletta Roberta Lombardo, memore del disagio patito lo scorso anno, quando causa furto smarrì 250 euro in scontrini, attentamente valutò il rischio che il funesto evento avesse a ripetersi, così all’apposito bikini a stelle senza strisce, casomai ci fosse da fare apostolato democratico tra gli scogli, associò un’innovativa bisaccia capace di contenere scontrini fino a 395 euro, stecchino del fiordifragola e spiccioli vari. Soprattutto per i cittadini eletti al Senato fu sforzo titanico: il giorno in Aula a votare, la sera in piazza e in spiaggia a difendere la Costituzione. Causa repentina reperibilità, raramente potevano spostarsi oltre il confine del raccordo anulare, avendo a est come punto di riferimento il Tufello e a ovest, al massimo, una capatina sul lungomare di Ostia. Del resto, non che il generoso impegno non venisse a volte – pur nella comprensibile distrazione tra abbronzatura e mojito, “a lazziale, te do ’n culo e fòco ai capelli!” – ricompensato da attenzione e partecipazione. Ai cittadini eletti Petrocelli Vito Rosario e Ciampolillo Lello, garbati meridionali grillini in trasferta romana, capitò di discutere a lungo, con vera passione, in zona Tor Marancia, tra l’happy hour e l’apericena, con Fabrizietto detto er Mandibbola, Giggi detto er Caciara, il palestrato Romolo detto er T-Rex, Quinto detto er Sesto e Jessica detta l’Abboriggena (causa abuso lampada abbronzante), che sentitamente annuivano ad ogni loro motivata denuncia, “c’avete ragione, me possino cecamme”, tanto convinti e tanto partecipi della lotta in corsa, “altro che ’a scatoletta de tonno, come ’na Golia li dovete scartà!”, che alla fine fornirono ai due compiaciuti cittadini eletti in missione “Parlamento in piazza”, felice sintesi e apposito slogan: “Eh sì, qua è come scivolà su ’n tappeto de cazzi, andò cadi cadi, lo piji ar culo!”. Fu momento di bellissima sapienza popolar-politica, convennero i due cittadini eletti. “Facciamo un post a Beppe!”, si dissero. Così fecero. Poi discretamente si allontanarono lungo la Cristoforo Colombo, mentre er Mandibbola, er Caciara, er T-Rex e pure er Sesto attaccavano in coro verso l’Abboriggena: “Faccela vedè! Faccela toccà!”. Felicissima missione, così che Dario Fo, in un post sul blog, parlò mica a caso di “nuova immersione nella realtà pasoliniana”, e persino di “francescano approccio” dei due esemplari cittadini senatori.

 

Tanto si mobilitavano i ragazzi meravigliosi di Grillo, quanto si mobilitavano i meravigliosi ragazzi di Padellaro. Fu lungamente dibattuto in redazione dove spedire a presidio democratico Andrea Scanzi. Siccome il tipino aveva reso noto che a quattordici anni leggeva Márquez e Pennac, a sedici Saramago, senza contare che a dodici già predicava nel tempio, si cercò apposito approdo. “Direttamente da Napolitano, er pupo?”. “Ma no, ricordatevi che Andrea ha passione per il piede femminile… L’ha detto in un’intervista… Ora, la Clio…”. Con un riflesso automatico, Daniela Ranieri cercò di occultare meglio sotto il tavolo le estremità. “Magari dalla Boschi, con quei tacchi…”. “Magari si distrae troppo… Però, pure per il vino c’ha passione. E se lo mettessimo a vigilanza dell’azienda vinicola di D’Alema a Otricoli?”. “Due vanitosi da poco…”, fu udito sghignazzare dal fondo della redazione. “Scusate, non ha scritto pure un libro sui cani? Allora, se non convince D’Alema può fare sempre un tentativo col bestione di guardia… Avete sentito? Il padrone ha detto che mozzica… Ci vuole uno determinato… Andrea, poggia la racchetta, compra una museruola e mettiti in moto!”. “Male che va, o lo mena D’Alema o gli corre dietro il cane…”, solita voce da un corridoio laterale. Timido abbozzo di applauso. Il combattente Scanzi riempì la borraccia di Morellino, invocò lo spirito di Gaber e quello di De André, prese la chitarra e si avviò. “Non dimenticare il modulo per raccogliere le firme!”. “E’ un mio allievo”, mormorò commosso Gomez, già con la valigia pronta per San Pedro del Pinatar. “Sì? E partite insieme?”, chiese speranzoso Padellaro. Nello stesso momento, presso un grande negozio di giocattoli, a piazza Venezia, una delegazione grillina valutava la possibilità dell’acquisto di uno stock di canguri di peluche (cm 26 x cm 17 x cm 8), simili a quello esibito nell’aula del Senato, nel pieno della lotta per la difesa democratica, dal cittadino senatore Maurizio Buccarella. “Una quarantina, che dite? Li distribuiamo nelle piazze…”. La proposta fu accolta con entusiamo. “Come hanno scritto sul blog: e ora… famoje er culooooo!!!!!!!!”. La “cittadina alla Camera” (come da apposita definizione) Rostellato Gessica ebbe un momento di comprensibile emozione davanti a un bellissimo orsacchiotto grigio/rosa. “Lo scontrino! Ricordatevi di farvi fare lo scontrino!”, ammoniva, aggirandosi tra le Barbie e le Peppa Pig, la cittadina Lombardo. “E state attenti a dove lo mettete!”. L’acquisto fu perfezionato. “Sarà la nostra mascotte!”. “E se portassimo uno di questi a Beppe, quando passiamo vicino Sant’Ilario?”. Fu comprato canguro di più apposita misura (cm 56 x cm 28 x cm 16), fu spedito rispettoso messaggio presso l’eremo ligure. “Bella idea, cazzo, bella davvero!”, fu la risposta. “Io sono in vacanza, non mi rompete i coglioni! Se vi vedo mi faccio prestare il cane da D’Alema!”.

 

Pure Marco Travaglio, ovviamente, sospese appena possibile la tournée per dare il suo contributo alla trebbiatura democratica. Prese, tra tanti faldoni, l’apposito faldone con i moduli, e col ben noto rigore sabaudo, la risaputa temerarietà non disgiunta da sprezzo montanelliano, s’inerpicò sui sentieri che conducevano verso la piazza principale del borgo di Arcore. Ma prima osservò con sguardo gelido i redattori ancora col culo sulla sedia – né faldone per firme democratiche in mano, né stradario nello zaino. Simile a Brancaleone da Norcia, parve Marco nella luce chiara del mattino che lo inondava: “Oh, gioveni! Quando vi dico ‘sequitemi miei pugnaci’, dovete sequire ed pugnare! Poche fotte! Se no qui stemo a prenderci per le natiche!”. Sulla piazza di Arcore, si sistemò. Fu giorno di mercato, quello, e perciò giorno di grande concorso di folle democratiche presso la democratica modulistica. Con femmina parameneghina pur essa pugnace, dall’occhio non ancora compiutamente indignato, Travaglio intraprese accesa discussione. Eppure, né olgettina pareva (avendo a misure cm 155 x cm 155 x cm 155), né renziana appariva, né con Pigi Battista imparentata risultava. Forse madre di corazziere napolitaniano?, ebbe dubbio Marco. “Se vuole le recito tutto il mio monologo ‘E’ stato la mafia’, magari chiamo Isabella Ferrari…”, si offrì speranzoso. “Va’ via gialdùn! Che monologo e monologo, che si mi sbrinano i bastoncini Findus che c’ho in borsa… Giovanotto, stia al suo posto, che la tròpa cunfidensa la fa pèrt la réerènsa…”. Ma fu l’unico fallimento, in una giornata piena di gloria per la difesa costituzionale. Tutti da Marco a firmare. Tutti da Marco a farsi firmare i libri suoi. Chi a farsi un selfie. Chi voleva il numero di Giulia Innocenzi. Chi consigliava un buon parrucchiere.

 

Non uno si tirò indietro, nell’estate di lotta. Tra borghi e piazze, spiagge e pericolose carreggiate, viottoli e picchi alpini, si soffrì e si lottò e si animò il risveglio democratico. Esemplare fu Luigi Di Maio, per risaputa e generalizzata considerazione ormai tenuto quale Benedetto Croce del cinquestellame tutto. “Non possiamo distaccarci dal bene e dal male della nostra Patria, né dalle sue vittorie né dalle sue sconfitte”, ammoniva e citava tra i corridoi e la buvette di Montecitorio, prima di affrontare anch’esso il sole e il vento verso cui Beppe indirizzava i passi dei suoi. Si appizzò, a mo’ di esempio e di incoraggiamento, lungo la Statale Domiziana, in zona Mondragone, e altro che “aria fresca!”, come si esortava, un’afa che accoppava. Ma niente, Giggino manco una piega, cravatta e giacca che pareva Forlani nei giorni afosi e gloriosi. Dopo aver scritto una missiva a Grasso, lungamente dibattuta sul sito (“vogliamo che la politica sia al servizio del popolo”: toh, che fantasia!), non ebbe timore il Di Maio a portare la sfida in quelle contrade complicate. E visto il successo dello scritto di cui sopra, a motivo di convincimento delle locali masse piuttosto refrattarie, si propose sullo svincolo della statale quale scrivano in caso di necessità – modello e insieme rimembranza di don Felice Sciosciammocca in “Miseria e nobiltà”. “Titolo emblematico – proruppe Di Maio coi grillini suoi scamiciati –: la miseria della loro politica e la nobiltà della nostra  opposizione”. Fu accorrere di mamme e nonni, di ammiratori che volevano comunicare il senso della loro partecipazione a Beppe di Sant’Ilario: “Caro Beppe cumpare nepote, qui stoce facendo la vita brutta sotto la partitocrazia, che chiote le porte alla speranza…”. Giusto qualche scugnizzo un po’ irrispettoso a volte irrompeva nel fervido scorrere della penna: “A Giggi, mettici pure un punto, una virgola, un punto e un punto e virgola!”. E pure altri, oltre i figli delle stelle e quelli del Fatto, andarono a pigliare aria fresca. A Palermo, dopo pasta con le sarde e doppia cassata, i senatori Minzolini e Mineo si accamparono sotto l’ombrellone, sulla spiaggia di Mondello – e secchiello e paletta in mano, a metaforica spiegazione, rendevano edotti i bagnanti sulla fragilità sabbiosa del castello di riforme renziane: appena Corradino aveva terminato di rifinire la torre del maniero, con vigorosa pedata Augusto l’atterrava: “Ecco, la riforma del Senato di Renzi ha la stessa solidità… Aho, a Corradi’, me vado a pija ’n orzata fresca, tu intanto fabbrica, rifà er castello…”.

 

Ma di sicuro il maggior successo fu quello registrato sulla spiaggia di Tropea, quando si materializzarono – in uno sfavillio di pettorali e addominali e bicipiti – i cittadini eletti Fico Roberto e Di Battista Alessandro, in slippini di chi nessun giudizio teme. “Cazzu cazzo!”, disse la bagnante di Catanzaro sentendo di colpo tutta un’indignazione democratica e tutto un languorino ormonale – un’angulèja, diagnosticò. “I bronzi di Riace calarono qui”, pensò. I due cittadini eletti, con garbo e muscoli e sorrisi, si presentarono. “Sono Fico”, disse il primo. “U viju”, disse la donna, rapidamente interrando u pana con la suppressàta di Roccabernarda, e squadrando gli aedo dei cittadini elettori. Fu accorrere da ogni altro ombrellone. “Tali e quali i bagnini di ‘Baywatch’”, sintetizzò altra femmina lì accanto, di buona memoria televisiva oltre che di insoddisfatti antichi appetiti. “Io sono stato pure in Guatemala”, informò il secondo. “Con Ingroia?”, domandò una terza donna. “Macché, per conto mio…”. “Ah, beh, coraggioso…”. “Che caldo…”. “Volete una liquirizia per tirarvi su?”, domandò speranzosa la signora pratica della saga di “Baywatch”. “Siamo qui in difesa della democrazia”. “E noi qui alla democrazia ci vogliamo abbadàri!”. Odore di bergamotto e peperoncino nell’aria. Il cittadino Fico e il cittadino Di Battista si scrutarono. Profondo sospiro, così che i pettorali ancora di più s’impennarono. “Aho, je famo vede noi, ar Giggetto che far er cocco de Beppe!”. Così pure sulla spiaggia di Tropea, quel giorno d’agosto, la fragile democrazia italiana – minacciata dal renzusconismo – edificò un’altra sua solida casamatta.

 

Fuori. I meglio combattenti per la democrazia, i più arditi, sono tutti fuori dall’Aula del Senato. All’aria fresca – ventaglio e modulistica in mano. Pure la redazione del Fatto è quasi deserta. In un angolo, Malcom Pagani, sfuggito all’attruppamento di Travaglio, Crocs colore arancio ai piedi, ghiacciolo alla menta in mano, si prepara a gustarsi in solitudine un vecchio episodio der Monnezza – “come sei impulsivo, aho! Te ’mpulsivisci e quanno te impulsi qua ’n se capisce più ’n cazzo!”. Di colpo entra Padellaro. Rapido, Pagani spegne il computer. “Malcom, tu non vai a raccogliere le firme?”. “Sì… Ma prima debbo rivedere dei film di Manoel de Oliveira, sai, per quella intervista… Se vuoi fermarti pure tu…”. Atterrito silenzio. Padellaro arretra, modulistica in mano, verso la porta e verso la lotta.

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