Beppe Grillo (foto LaPresse)

Abbiamo scherzato, siamo un partito. Metamorfosi vendoliana del M5s

Marianna Rizzini

“Congresso”, allora facciamo un congresso, ha detto a Repubblica il deputato a Cinque stelle Tommaso Currò (un “dissidente”, così veniva definito un tempo, solo che ora non si capisce bene chi dissenta da chi e da che cosa, nel M5s squassato da lotte sul filo dei distinguo che neanche a casa Vendola).

“Congresso”, allora facciamo un congresso, ha detto a Repubblica il deputato a Cinque stelle Tommaso Currò (un “dissidente”, così veniva definito un tempo, solo che ora non si capisce bene chi dissenta da chi e da che cosa, nel M5s squassato da lotte sul filo dei distinguo che neanche a casa Vendola). “Congresso”, ha detto Currò per bastonare non tanto la linea dialogante a intermittenza con il Pd (che una volta, quando nel M5s “dialogare” significava rischiare l’espulsione, era soprattutto la sua), quanto la modalità della prevalenza mediatica del collega Luigi Di Maio, vicepresidente della Camera.

 

Dire “congresso”, dunque, per capire se abbia ragione Beppe Grillo (il signor no) o Gianroberto Casaleggio (il signor no che ora dice sì) o il signor Di Maio (quello che dice sì ma con riserva): ed è stata una liberazione, quella parola “congresso” pronunciata come fosse cosa normale, una parola così “Prima Repubblica” che fa dire sottobanco “oh, finalmente” a quelli che, tra i grillini, non ne potevano più dei proclami, delle bisbeticità assortite e dei dietrofront via blog. E allora si fa strada la possibilità di accettare l’inaccettabile: sì, siamo un movimento, siamo quelli del Vaffa, ma magari alla fin fine abbiamo scherzato (siamo un partito, perché no?). E insomma i fatti parlano pure nel M5s (al pari dei voti persi): chiudersi a chiave nella torre porta a dover sperare che un cavaliere passi per caso e chieda alla bella principessa in finestra di sciogliere i capelli. Ma evidentemente sono tutti stufi: Grillo stufo di sbraitare e vedere che ci sono conseguenze (non così era sul palco, quando era soltanto attore comico); Casaleggio stufo di dover istruire il suo manipolo di eletti per poi vedersi punzecchiato da un’assemblea di gente che ha preso sul serio la storia del pianeta Gaia (tutti per uno, uno vale uno); gli eletti stufi di non potersi comportare come gente che, grazie a una specie di lotteria sul web (le parlamentarie), è comunque entrata, come si suol dire, “nelle istituzioni” (e hai voglia a dire “vi apriamo come una scatola di tonno” quando sei dentro).

 

E così capita, nei Cinque stelle liberati dall’obbligo di essere “movimento del vaffa”, che il diventare partito – quindi con il futuribile congresso, quindi con la corrente, quindi con il bilancino tra ciò che significa dire “no”, “nì” e “sì” al Pd – sia prospettiva meno grama del continuare a sfidarsi a colpi di follower su Twitter, nel gioco al massacro in cui vince chi prende meno insulti tra contrapposte fazioni di attivisti. Tuttavia non se ne esce: non appena Currò dice “congresso” la nostalgia canaglia per l’essere “movimento” si manifesta, e proprio in capo a chi è accusato di essersi fatto leader di partito senza passare dal via: Di Maio. Ieri infatti Di Maio rispondeva all’intervista di Currò con un tweet di somma seriosità: “Currò dice a Repubblica che ormai sono a capo di M5s. Non è così. Finita legge elettorale scriverò lettera agli attivisti che spiega tutto”.

 

Non sono bastate dunque le lettere scambiate con il Pd (elenco-punti contro elenco-punti – per tre settimane), ché nel popolo a Cinque stelle la grafomania spicciola del web è diventata stile di vita. Chi non mette per iscritto, chi non si sottopone al dramma anche umano della gogna internettiana, chi non chiede pareri ossessivamente alla pletora anonima dei cliccatori compulsivi (il pubblico da casa) si macchia di eresia e attenta all’identità del movimento che non si rassegna a dire a se stesso: abbiamo scherzato, siamo un partito. Così si cercano vie di fuga, nell’imbarazzo del doppio streaming con Matteo Renzi e del doppio testa-coda sulle riforme, neppure sorretti dalla certezza che sia sempre Grillo quello che dice no e sempre Casaleggio quello che dice sì (lo scambio di ruoli tra i due, con Di Maio come jolly, avviene costantemente). E la via di fuga, ieri, pareva quella indicata dal senatore Vito Crimi, l’ex protagonista assonnato degli streaming delle meraviglie (comiche) con Pier Luigi Bersani, Enrico Letta e la collega deputata Roberta Lombardi: “Referendum consultivo!”, diceva Crimi, referendum subito e avrete i nostri voti, “qualsiasi cosa esca dalla consultazione”, ed era l’ultima (disperata?) mossa dei grillini sperduti, cui pure è capitata, tra capo e collo, l’assoluzione del Cav. – e chissà adesso come si fa a porsi come interlocutori al posto del cosiddetto “pregiudicato”.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.