Crescita e inflazione mosce. Così la scalata al super debito si complica

Marco Valerio Lo Prete

Schäuble nega i cedimenti sul rigore. Delrio già quantifica l’eurosconto sul deficit, ma il Tesoro è più cauto. Ora si tratta col duro Katainen

La flessibilità, come la bellezza, è negli occhi di chi guarda. Da venerdì scorso, quando si è concluso il vertice dei capi di governo dell’Unione europea, si sono sprecate in Italia le interpretazioni sul maggiore pragmatismo in materia di risanamento fiscale che il governo di Matteo Renzi avrebbe strappato a Bruxelles. Ieri il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, al Financial  Times che gli chiedeva delle pressioni di Roma per una maggiore flessibilità nel Patto di stabilità, ha risposto così: “In Europa non ho sentito alcuna richiesta né dal premier italiano né da nessun altro”. Qualcuno tradurrebbe: “Flessibilità, chi?”. Nel comunicato finale del vertice, a dire il vero, ricorre tre volte il riferimento a “sfruttare al meglio la flessibilità delle norme esistenti”. Chi cercasse indicazioni concrete su cosa voglia dire, però, dovrà attendere. Perché tale “flessibilità” Roma dovrà conquistarsela passo dopo passo convincendo il guardiano dei trattati europei, cioè la Commissione Ue, e poi gli altri stati membri dell’euro. Antonio Tajani, europarlamentare di Forza Italia e commissario Ue uscente all’Industria (da ieri e fino a novembre lo sostituisce l’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci), ricorda al Foglio che “già l’accelerazione del pagamento dei debiti pregressi della Pa verso le imprese fu definita nel 2013 dalla Commissione come ‘un fattore attenuante del Patto di stabilità’. Roma quella flessibilità non l’ha usata a dovere”. Ora si dovrà intavolare un nuovo scambio tra “riforme” in patria e “flessibilità” sui conti pubblici in Europa. In Italia però già ci si porta avanti col lavoro. Ieri il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, intervistato dal Corriere della Sera, ha tentato la prima contabilizzazione ufficiale dello spazio in più che ci sarebbe concesso per sanare i conti pubblici: 10 miliardi l’anno. La cifra, che potrebbe essere scorporata ai fini del conteggio del deficit, si ottiene sommando i 7 miliardi di cofinanziamento nazionale dei fondi europei e altri 3 miliardi della “clausola degli investimenti” per spese ad alto impatto sociale (scuola e territorio). Confindustria, la scorsa settimana, era stata più prudente, fermandosi a 7 miliardi. Considerato che lo sgravio dell’Irpef sugli stipendi più bassi, i celebri 80 euro, è costato 7 miliardi per poco più di metà anno, si capisce l’entità tutt’altro che decisiva del possibile “sconto”. Basterà per imprimere una svolta?

 

A Via XX Settembre – dove le uscite di Delrio sono state lette con scetticismo – continuano a ragionare su un’altra flessibilità, altrettanto agognata: quella sulla velocità della diminuzione del rapporto debito pubblico/pil. Il debito è al 135 per cento del pil e aumenterà anche quest’anno, mentre dal 2015 il Fiscal compact esige che scenda a una certa velocità. Considerate le previsioni di crescita poco scoppiettanti (ieri l’Istat ha detto che il pil potrebbe essere negativo anche nel secondo trimestre, “in un intervallo compreso tra meno 0,1 e più 0,3 per cento”) e l’inflazione sempre bassa (a giugno quella core è scesa a 0,7 per cento), autorevoli economisti iniziano addirittura a ragionare su una “ristrutturazione” del fardello debitorio, cioè su perdite da infliggere ai creditori. Ieri Delrio non ha opposto un netto “no” a questi scenari in stile greco-argentino (“sono riflessioni che farà il premier”), ma ha preferito rilanciare il progetto di una “mutualizzazione del debito” a livello europeo. Gli Eurobond sembravano a dire il vero scomparsi dal dibattito comunitario. Riparlarne fa pensare che il moloch-debito preoccupi molto il governo.

 

E la Commissione Ue, che la flessibilità sarà chiamata a dispensarla, cosa ne pensa? Da oggi il commissario agli Affari economici, colui che succede al rigoroso finlandese Olli Rehn, è l’altrettanto rigoroso e finlandese Jyrki Katainen. Classe 1971, dal 2011 al 2014 primo ministro di Helsinki per i conservatori, Katainen secondo le ricostruzioni era anche il candidato preferito da Angela Merkel per la presidenza della Commissione. Forse anche per un motivo che non piacerà a Delrio: Katainen si è sempre detto contrario agli Eurobond che, uniformando i rischi di debito tra paesi dell’euro, “permetterebbero di ripetere gli errori del passato”. Cioè troppa spesa in deficit. Katainen forgiò il termine “growthsterity” per magnificare le sorti propulsive dell’austerity e nel 2011 ottenne solo per il suo paese “garanzie bilaterali” da Atene in cambio del pacchetto di aiuti. La leadership tedesca a volte è dovuta addirittura intervenire per moderare i toni barricaderi del premier-maratoneta, nel 2012 sfuggito a un attentato. Merkel però ricorda ancora con piacere il fatto che Katainen abbia preso le sue difese nel 2012 al G20 di Los Cabos in Messico di fronte a Obama e agli altri leader che chiedevano a Berlino di cambiare strategia, accettando politiche fiscali e monetarie più espansive. Dove non riuscì Obama, ora dovrà riuscire il governo italiano.