Il ministro della giustizia Andrea Orlando (foto LaPresse)

Che cosa manca per cambiare davvero la giustizia italiana

Piero Tony

Riforme quasi all’ordine del giorno: la legge sulla responsabilità civile, il nuovo reato di omicidio stradale, la proposta di modifica dell’ordinamento giudiziario. Serve però un’operazione complessiva su obbligatorietà dell’azione penale e separazione delle carriere.

Picchia e mena, picchia rimena e ripicchia finalmente qualcosa si è mosso. E’ passato nemmeno un anno e a me pare ieri quando fui bersaglio di una fatwa da parte della sezione toscana dell’Associazione nazionale magistrati (severissima e indignata per la ritenuta infondatezza delle mie osservazioni) per avere io scritto, oltre a tutto il resto, sapete cosa?, cose da sempre sotto gli occhi di tutti ma per genetica riservatezza di casta di solito ritenute non criticabili se non a voce bassa, con qualche contorsione di terzo tipo e in corridoi fuori mano e che comunque non siano di passaggio.

 

Avevo scritto che in Italia l’unico vero processo è quello mediatico-giudiziario sentenziato con stuzzicanti bigné di prima pagina, ad arte sempre farciti di voci… dal sen illegalmente (artt.114, 115, 329 cpp, 621, 622, 684 cp) fuggite; che per via della lentezza della Giustizia le indagini si sono snaturate e da “preliminari” che dovrebbero essere secondo il codice – ossia giusto quel poco necessario al pm per decidere se chiedere archiviazione o giudizio – sono divenute l’essenza centrale e definitiva del procedimento; che troppo spesso si percepisce l’autoreferenzialità di una magistratura indivisa quanto alle carriere e sensibile più al tornaconto della propria immagine e della propria categoria che alla necessità di ottimizzare organizzazione ed efficienza del sistema giustizia.

 

Ho detto prima che finalmente qualcosa si è mosso perché dopo codeste mie osservazioni e codesta fatwa sono sopravvenute alcune importanti e utili novità – non accampo diritti di copyright, sia chiaro, non fosse altro perché si tratta di criticità in parte segnalate, seppure con toni più istituzionali, anche da altri più valenti magistrati del calibro del primo presidente della Corte di cassazione Giorgio Santacroce – che grazie a Dio paiono voler ovviare alle drammatiche disfunzioni di cui avevo scritto irritando gli ex colleghi.

 

Ne ricordo qualcuna. Stanno finalmente e felicemente decollando l’applicazione della sospensione con messa alla prova introdotta poco tempo fa con l’art. 168 bis cp e la legge sulla responsabilità civile approvata dal Parlamento agli inizi dell’anno. Sono poi entrati in vigore dal 2 aprile 2015 il nuovo art. 131 bis cp in materia di non punibilità di fatti particolarmente tenui e occasionali, dal 6 febbraio 2016 i decreti legislativi nn. 7 e 8/2016 sulla depenalizzazione di circa 40 reati, dal 25 marzo 2016 il nuovo reato di omicidio stradale (artt. 589 bis, 590 bis cp). Non solo: il 25 marzo scorso il Consiglio dei ministri ha approvato, pur dopo indugi durati più di sette anni, il regolamento di attuazione sulla banca dati del Dna voluta dal trattato europeo di Prüm e già da tempo operante in molti paesi della Ue. Non solo: gli indagati/imputati in attesa di un primo giudizio sono passati dai quasi 12.000 di due anni fa agli 8.700 di oggi (verosimilmente grazie al pleonasmo normativo recentemente introdotto a ulteriore ennesima precisazione, che le esigenze cautelari devono risultare concrete e attuali… ma va?) e la complessiva popolazione carceraria è scesa a poco più di 50.000 detenuti anche in virtù di un incremento dell’esecuzione delle pene lievi all’esterno del carcere e dunque in linea con la previsione rieducativa dell’art. 27 Cost. Non solo, bollono in pentola altre importanti riforme: quella in materia di intercettazioni e quella della sezione disciplinare; infine quella proposta dalla commissione per la riforma del Consiglio superiore della magistratura che tra l’altro, con il senno e le ansie del poi, intenderebbe limitare i danni del correntismo politicizzato e delle esiziali logiche elettorali con procedure elettive tanto prudenti e arzigogolate da apparire, a dir il vero e per quel poco che oggi è dato sapere, davvero strampalate oltre l’accettabile.

 

E ancora, senti senti: all’inaugurazione dell’Anno giudiziario il procuratore di Palermo e il presidente della Corte d’appello di Firenze hanno tuonato proprio con quelli che sono i miei temi preferiti, quelli condannati dalla fatwa per intenderci, che per amore e rispetto verso la magistratura avevo scritto e detto fino alla noia; il primo, il procuratore di Palermo, criticando le enfatizzazioni giudiziarie e la frequente rincorsa alla patente di antimafiosità, il secondo stigmatizzando la celebrazione di pseudoprocessi mediatici che non solo annullano qualsiasi forma di pietas e calpestano la presunzione costituzionale di non colpevolezza ma spesso, per la lentezza e il tempo trascorso tra fatto e processo, finiscono per rendere centrale la fase delle indagini preliminari. Stupendo, vale la pena… non poter tacere, visto che se prima semini dopo raccogli!

 

Altra novità non trascurabile quella delle direttive 20 gennaio 2016 impartite dal Parlamento europeo in uno con il Consiglio dell’Unione europea sulla necessità di tutelare i procedimenti penali dalle interferenze mediatiche. Non solo, non posso nemmeno trascurare la sconvolgente notizia che la commissione di ben 17 esperti e magistrati, capeggiata da Michele Vietti per nomina governativa del 12 agosto 2015, ha in questi giorni trasmesso al ministro Orlando una corposa proposta di modifica dell’ordinamento giudiziario rappresentando – vedi intervista a Vietti sul Foglio del 26 marzo scorso – conclusioni tanto rivoluzionarie che dir “copernicane” è poco: si è concluso, in sostanza, che l’assetto del sistema va impietosamente capovolto, Giustizia come servizio ai cittadini e non più come gratificazione a giudici e pm, nell’organizzazione del sistema Giustizia prevalenza delle esigenze funzionali riferite all’utenza rispetto a quelle carrieristiche riferite ai magistrati. Ma dai! Ma allora certe critiche non erano del tutto sballate!

 


Il ministro della giutizia Andrea Orlando durante il convegno "Dialoghi intorno al Consiglio Superiore della Magistratura" (foto LaPresse)


 

Comunque chapeau, lo dobbiamo dire, molto è stato fatto ed è dovere di animo gentile complimentarci ma… ma si tratta di modifiche frammentarie, manca ancora molto. Perché la riforma del codice penale è ancora in alto mare. Così come quella della prescrizione, impantanata tra chi pensa che ogni reato prescritto è un’alzata di mani per resa e chi, invece, ritiene che un presunto non colpevole non possa sotto la spada di Damocle aspettare tutta la vita che il pm riesca a provare la sua responsabilità. E perché dovrebbe senz’altro essere rivisitata la nuova normativa sulle nomine dei vertici degli uffici giudiziari; tanto birbona, per via di rarefatti criteri di valutazione che portano a discrezionalità pressoché assoluta, da esaltare ancora di più il peso delle correnti e da consentire di conseguenza il conferimento di incarichi direttivi di presidente e procuratore anche a magistrati senza alcuna specifica esperienza, cioè a chi nella sua vita professionale mai ha diretto alcunché, al limite a chi si è dedicato soprattutto a politiche associative e/o incarichi fuori ruolo.

 

Ma manca soprattutto un’operazione complessiva che imposti i fondamentali del processo accusatorio, ridefinendo il precetto dell’obbligatorietà dell’azione penale e soprattutto affrontando il problema della cd separazione delle carriere. Forse il nostro attuale premier – alla cui sopraffina intelligenza, indubbia, non può sfuggire l’importanza vitale della questione – ritiene che oggi manchino le forze politiche necessarie visto che a tutti è noto che solo una modifica costituzionale consentirebbe di riconsiderare l’obbligatorietà (art. 112 Cost.) e reimpostare le carriere (anche se a tale ultimo proposito non sono il solo a pensare che si tratterebbe di modifiche solo ordinamentali da affrontare con leggi ordinarie, ma il discorso – che si incentrerebbe soprattutto sul ragionato raffronto tra gli artt. 97 c. 1, 101 c. 2, 105, 107 c. 4, 112 della Costituzione – sarebbe troppo lungo per questa sede). Ma ciononostante il nostro attuale premier dovrebbe quantomeno tentare codesta operazione complessiva perché l’ideale Giustizia va inseguito e incalzato comunque e a prescindere dai conteggi. Perché in ogni modo dimostrerebbe a tutti, compresa l’Europa, rassicurante sensibilità politica nei confronti dei valori fondamentali. Perché, essendo un corollario del processo accusatorio, di fatto la separazione delle carriere venne già decisa allora. Perché processo accusatorio con giudiziario indistinto non solo costituisce in astratto un obbrobrio giuridico e logico ma, nella quotidianità delle aule, spesso può generare mostri.

 

L’equidistanza si misura e non si immagina, rispetto al giudice il pm è contiguo mentre la difesa è lontana, per ragioni transitive di appartenenza qualche volta di fatto quasi antagonista di entrambi. Non è solo questione di principio, come sostiene qualcuno. La “terzietà” del giudice, così come esplicitata nel 1999 dall’art. 111 Cost., è valore storicamente universale che già era presente in Costituzione nella sintesi degli articoli 3 (uguaglianza), 24 (inviolabilità del diritto di difesa) e 25 (sovranità del giudice naturale precostituito per legge) nonché nella Cedu (art. 6) e infine nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (art. 6 n. 10). Terzietà non è oggetto misterioso ma condizione di chi in un rapporto giuridico è estraneo rispetto alle altre parti in causa e dunque, a esse equidistante, può tentare una decisione imparziale e giusta. Ineludibile in un giusto processo accusatorio ma da noi ancora inesistente dopo quasi 30 anni dall’introduzione del nuovo rito. Da quasi 30 anni il prodotto della nostra giustizia penale appare spesso fuorviato da tale inesistenza, gli avvocati protestano sempre più veementemente di fronte a decisioni che qualche volta sanno di scuderia, l’Europa anzi il mondo ci guarda arcigno, i mostri giudiziari si moltiplicano e da noi si continua a fare orecchie da mercante. Come se fosse normale accettare giudice e pm appassionatamente avvinti dalla e nella stessa carriera, stessa casa e organizzazione, stesso Csm, stessa autorità disciplinare, stessa quotidiana familiarità.

 


Plenum del Consiglio superiore della magistratura, 22 dicembre 2015, Roma (foto LaPresse)


 

Come due bancari che operano in due sportelli diversi. Come se Giovanni Falcone già allora non avesse ravvisato il pericolo di codesta parentela, “il pm non può essere un paragiudice” diceva. Come se non fosse di solare evidenza che nel rapporto di colleganza non possono non fiorire dinamiche incompatibili con il valore della terzietà: malinteso senso di lealtà nei confronti di un collega che nelle indagini si è prodigato allo spasimo, timore di guastare la complessiva immagine del sistema Giustizia, di tradire anzi rinnegare le aspettative dell’indagine, di smentire un’attività anch’essa giudiziaria. Come se le stesse dinamiche potessero fiorire anche con l’altra parte, la difesa, qualche volta di fatto relegata nel ruolo di convitato di pietra. C’è infine da chiedersi se la magistratura requirente sia o non sia o quanto sia d’accordo sulla separazione delle carriere. Non sono in grado di rispondere se non sul punto che le perplessità si fondano sul timore di perdere autonomia e indipendenza, ossia su un processo alle intenzioni e quindi su un timore a mio parere ingiustificato, almeno allo stato, e comunque politicamente governabile.

 

Ecco, a me pare che sia arrivato il momento di rompere gli indugi, dello stop waiting and start acting direbbero altrove: si decida una buona volta per separazione di carriere e di organizzazioni e di Csm, a meno che non si voglia ricambiare il codice e ritornare al sistema inquisitorio o misto. Mi permetto infine di far presente ai nostri governanti che la casa si costruisce mattone su mattone ma partendo dalle fondamenta. E che il sistema giudiziario sta ineluttabilmente veleggiando verso un processo europeo che, prima o dopo e nonostante diffuse preoccupazioni di sovranità, ci costringerà a omologarci al resto del mondo. Per cui sarebbe bene prepararci con scelte di civiltà anticipando l’evento e non farlo in ritardo, obtorto collo e mugugnando senza una pur sempre opportuna eleganza istituzionale.

 

Concludo ricordando che l’Unione camere penali, esasperata e incavolatissima per tale stato di cose – come risulta dall’agenzia di stampa del 14 marzo scorso – sulla separazione delle carriere intende sia lanciare un referendum sia attivare una proposta di legge di iniziativa popolare, al più presto. Formulo sentiti auguri.