Siamo una squadra fortissimi. La Rappresentativa Magistrati prima di una partita di calcio alla manifestazione "Ama la Lazio" del giugno scorso a Formello (foto LaPresse)

Il team dell'Ingiusto processo

Piero Tony
Lento, superato e criticato da tutti, il sistema giuridico italiano continua a non migliorare, e non sembra pronto al cambiamento in atto che la tecnologia ha portato. Che ci sia un problema evidente è stato denunciato da molti. Il silenzio dei giornaloni sulla separazione delle carriere.

Sarà anche fissazione senile da tenere sotto controllo ma certamente non è colpa mia e credo non ci sia nulla da fare, ormai mi ribolle il sangue tutte le volte che sento parlare della lentezza giudiziaria e dei suoi effetti perversi. Ad esempio in questi giorni mi ribolle perché, in un importante procedimento con imputati in custodia cautelare da quasi sei anni, con il fiato comprensibilmente sospeso gli interessati abbiano aspettato – da quando? – da più di 13 mesi che i consiglieri d’appello si decidessero – a cosa? – a finire di scrivere e a depositare la sentenza che confermò la condanna di primo grado. Probabilmente Tolstoj per scrivere “Guerra e Pace” e Beethoven per comporre la Quinta ci misero di meno.

 

Ecco, questa è l’ultima cattiva notizia: imperterrita continua la difesa dell’esistente – mediante la tradizionale censura del silenzio – malgrado si tratti di un sistema giustizia che da decenni tutto il mondo critica motivatamente. Le solite orecchie di mercante di stampa, politica ed istituzioni. Nonostante che il problema giustizia sia divenuto un farfuglìo ormai di moda. Nonostante ultimamente lo abbiano ammesso e denunciato perfino il presidente della Corte di Cassazione, il vicepresidente del Csm e il ministro della Giustizia: che di fatto nel nostro paese il dibattimento non è il cuore pulsante del procedimento penale, così come previsto dal codice di rito – acquisizione di ogni prova alla luce del sole, non più in solitaria inquisizione bensì in forma orale e concentrata e immediata e confrontata e garantita dalla dialettica delle parti – ma resta solo una sua fase eventuale e comunque sempre marginale; perché, aggiungo io, nel concreto dall’ormai lontano 1989 non ha mai smesso di imperversare la centralità dei verbali delle mediatizzate indagini della polizia giudiziaria – a iniziativa o su delega fa lo stesso – che, espletate sotto una più o meno formale direzione di un pubblico ministero “parente ” del giudice per via di comunanza di carriere (come soleva dire anche Giovanni Falcone), non di rado irrompono sulla/nella giurisdizione come un fiume in piena, con buona pace di qualsiasi argine difensivo.

 

Tutto ciò nonostante si continua solo a mormorare – ma nei corridoi – che su argomenti così delicati è inopportuno mettere nero su bianco, che i panni sporchi si lavano in casa propria, che non si sputa nel piatto in cui si mangia, che con la critica si rischia di delegittimare la giustizia. E si continua a imbellettare il pachiderma con piccoli gentili ritocchi facendo però orecchi di mercante su quello che – a prescindere da quelle che potranno essere le grandi riorganizzazioni sovranazionali degli apparati investigativi, ventilate da più parti e ormai incombenti – resta e resterà il più urgente intervento strutturale, la separazione delle carriere. Mai che i nostri governanti e i mass media più importanti si siano chiaramente pronunciati se secondo loro sia o non sia giusto separarle, a meno che io non sia distratto. Escano allo scoperto una buona volta.

 

Separazione che invece la stragrande maggioranza degli addetti – mi riferisco ad avvocati penalisti e cattedratici anche tra i più importanti – invoca da anni minacciando di tutto, da astensioni a referendum a legge costituzionale di iniziativa popolare, ma senza riuscire a rompere la censura del silenzio, un silenzio pressoché ermetico e assoluto. “Il solito complottista”, direte voi, “con tanti massmedia in giro come puoi pensare che si possano condizionare i flussi di informazione!”. Non mi vergogno a dirlo, lo pensavo anch’io fino a qualche anno fa poi per i casi della vita insorse qualche sospetto, mi girai attorno e ci feci caso. Fateci caso anche voi, vi prego. E concedetemi, è un anello del tema, che paure e ruffianesimi vengono suscitati e attizzati non dal giornalaio sotto casa ma da chi conta perché può dispensare il bene e il male, al pari di Dio e al pari di chi – sempre dall’alto – ti governa o ti può giudicare fulminandoti con un avviso di garanzia o peggio.

 

Ecco, lo ammetto, avevo sempre creduto che fosse possibile applicare la sordina a un giornaletto di provincia ma non a interi gruppi di mezzi di informazione, specialmente se più d’uno e di diversi editori. Solo in età matura ho visto il filo, sottilissimo, che spesso riesce a legare – a dispetto della libertà di stampa e della sua funzione – l’informazione che teme di inimicarsi o quella che vuole ingraziarsi quei potentati. Scoperta da tre soldi? Può sfuggire che, non di rado, anche per questioni importanti restano muti conniventi di fronte all’evidenza? Tacciono per ragione di stato? Ragione di establishment? E’ successo… con le variabili indipendenti… con le convergenze parallele… con Mafia Capitale… con la Trattativa stato-mafia… con persone che non si può non vituperare pena la scomunica e succede oggi con la separazione delle carriere che – non vi pare un granché? – nulla è se non condizione imprescindibile per la realizzazione di un precetto costituzionale, il “giusto processo” di cui all’art. 111 Cost.

 

Avete letto a tal proposito qualcosa sui giornaloni? Tutti disciplinatamente schierati . Eppure il tema non è da poco, anzi è centrale visto che per quella stragrande maggioranza solo la separazione delle carriere potrebbe assicurare finalmente il decollo dell’accusatorio e la necessaria specializzazione professionale e una vera dialettica processuale e il rispetto per le persone e la fine di quella patologica centralità dei verbali di indagine a discapito della giurisdizione, così bene denunciata dalle autorità di cui sopra. Silenzio e ancora silenzio.

 

Ne parlo ogni volta che posso, in linea con le pretese dell’Unione Camere Penali, per una questione di principio? Nemmeno per sogno, questione di preoccupato amore per il decoro della Giustizia con la “G” maiuscola, di rispetto per il legislatore che nel 1988 volle un processo accusatorio e non di polizia; di dispetto perché il timore che le procure manifestano per la separazione delle carriere si fonda prevalentemente, e irrazionalmente, su di un processo alle intenzioni; questione di qualità del prodotto come dimostrano gli innumerevoli flop e scandali – sulla pelle delle persone – riportati dalle cronache giudiziarie: crocifissioni mediatiche seguite da assoluzioni se non addirittura da richieste di archiviazione, processi bis ter quater etc etc in sostituzione – dopo anni e anni – di processi già esauriti, milioni di euro pagati dallo stato quale riparazione per ingiuste detenzioni, le storie infinite di sgangherate indagini senza capo né coda e così via. Un macello. Silenzio e ancora silenzio. Paura che le procure si incavolino? O che i politici l’interpretino come indebita pressione visto che hanno ben altro da risolvere? Bah! E’ certo che da anni avvocati e cattedratici scalpitano e minacciano la paralisi delle udienze, da anni gli utenti continuano a subire l’inquisizione, da anni il precetto costituzionale di fatto viene ogni giorno calpestato… e i mass media parlano d’altro.

 

Ma per fortuna ci sono anche buone notizie!

 

La prima: pare accantonata l’idea del premier di nominare l’amico d’infanzia o di gioventù Marco Carrai consigliere per la sicurezza cibernetica, una nomina che come Caligola con il suo cavallo avrebbe perniciosamente bypassato e svilito le strutture istituzionali.

 

La seconda: alla prestigiosa Fondazione Luigi Einaudi bollono in pentola importanti iniziative tese a puntare i fari e organizzare la discussione su quelle che paiono le più importanti problematiche di giustizia del momento, non solo separazione delle carriere ma anche misure cautelari reali e perimetri sia dell’obbligatorietà dell’azione penale sia del principio de solve et repete in materia di giustizia tributaria e concorso esterno nell’art. 416bis cp e giustizia minorile e, infine, impugnabilità delle sentenze di assoluzione da parte del pm. Tanta polpa sulla graticola, sarà sicuramente utile al dialogo.

 

La terza: quando intorno alla fine di luglio scorso a Roma, davanti a un parterre de rois in palazzo Wedekind di piazza Colonna, Annalisa Chirico ha presentato l’ultima sua creatura, il movimento da lei presieduto “Fino a prova contraria”, molti dei relatori apparivano se non emozionati quantomeno ben consapevoli dell’importanza dell’iniziativa: mi riferisco a persone di calibro tipo l’ambasciatore americano John Phillips, la professoressa Paola Severino, il magistrato Raffaele Cantone, il presidente dell’Unione Camere Penali Beniamino Migliucci e così via. Tutti concordi nel rilevare diffusa carenza di attività di prevenzione, eccesso di giudiziario, bisogno di giudici sempre più specializzati (giudice delle imprese anche nel settore penale, ha suggerito la Severino), intollerabilità – perché vicina al punto di non ritorno – della drammatica lentezza del sistema giustizia e della ormai palese onnipotenza delle indagini preliminari rispetto alla fase del processo ossia alla fase della giurisdizione.

 

Buona notizia visto che codesto movimento – il nome non fa altro che ricalcare in forma diretta e simbolica un altro dettato costituzionale, quello dell’art. 27 della Costituzione là dove precisa che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva” – vuole essere una sentinella (sede nella capitale ma anche articolata sul territorio nazionale in club locali), proprio una civile ed attenta sentinella deputata a vigilare sulle eventuali disinvolture di sistema e ad alleviare la disarmata solitudine di chi possa ritrovarsi vittima di errore giudiziario.

 

Ce n’era bisogno e ce ne sarà sempre di più, di iniziative liberali attente alla persona e di “sentinelle”, visti gli scenari di giustizia spiccia e “sostanziale” che credo ci attendano in tutto il mondo. Soprattutto in relazione alle esigenze di sicurezza determinate dalla follia terroristica internazionale e dalla organizzatissima delinquenza. C’è poco da discutere, se da una parte corre l’obbligo di rifiutare qualsiasi enfatizzazione strumentalizzante o ritorsiva o provocatoria, dall’altra non appare del tutto azzardato il temere che, a tutela di una sicurezza sempre più in bilico, sia i controlli che le conseguenti indagini possano diventare sempre più procedure tecno-amministrative globali e preventive e cautelari – una tendenza internazionale, a farci caso, già si intravede quantomeno in filigrana – con tutto quello che ciò comporta quanto a invasività e compressione di diritti e garanzie e quel che resta della privacy.

 

Vorrei essere più preciso su quanto, non solo secondo me, trapela in filigrana. Al cospetto di un mondo sempre più (chissà fino a quando ?) in crescita – quanto a popolazione e sua mobilità, profondità incredibilmente sempre più marcata delle disuguaglianze socioeconomiche, conseguente vastità dei flussi migratori, strapotere delle concentrazioni finanziarie, conflittualità culturale e/o religiosa, criminalità comune e terroristica – credo sia ragionevole prevedere, oggi, che gli attuali sistemi giudiziari nazionali rischino di diventare sempre più stretti e di esplodere come la rana di La Fontaine, rendendo necessari, prima o dopo, profondi cambiamenti di sistema e soprattutto di cultura, tutti a tendenza aggregativa e sovranazionale soprattutto quanto a procure e intelligence.

 

Cambiamenti anche di procedure e tempistiche, come da qualche parte già sta avvenendo, visto che la risposta sociale, quella immediata e diretta, per forza di cose non potrà operare con le prassi giudiziarie tradizionali – che sono principalmente lente e solenni come grandi fiumi – e non potrà che transitare, nella gran parte, attraverso controlli e provvedimenti di polizia para-amministrativa, vigilati dal pm e dotati di autoritarietà ossia immediatamente esecutivi. Con ciò che potrebbe conseguire: intervento della giurisdizione – nella gran parte – in seconda battuta e a fatto compiuto (il noto fottiti et repete diceva un professore di diritto tributario mio amico… amico indegno per via del linguaggio), naturalmente su impugnazione degli interessati. Pare il dilemma di Isaiah Berlin, terribile il rischio e parimenti terribili le cautele per scongiurarlo.

 

A ben pensarci l’annosa centralità dei verbali di indagine potrebbe non aver fatto altro che anticipare casualmente i tempi – non certo con intenzione ma per sciatteria e forse per sfiducia nei confronti di un giudicato sempre lontano all’orizzonte – di questa epoca di transizione che pare destinata a vedere modificato il Dna della giustizia in genere e di quella penale in particolare.
Transizione quasi precipitosa, dall’attuale processo tradizionale a uno amministrativizzato, realisticizzato (mi si passi il termine) e relativizzato alle esigenze del momento. Da ricostruzione logica dell’accadimento/fatto penale a ricostruzione tecnica, una larga deriva da giurisdizione dei diritti ad amministrazione de plano dei bisogni sociali, da cultura illuministica di giustizia e verità a cultura dell’efficienza concreta e prioritaria contro uno stato di necessità abbastanza evidente.

 

Periodo di transizione in cui l’interpretazione sottesa dal libero convincimento logico di napoleonica memoria dovrà forse, prima o dopo, cedere quasi completamente il passo a mero controllo di regolarità delle procedure applicate e a una mera raccolta e presa d’atto di accertamenti di polizia sempre più documentali ossia tecno-scientifici e rappresentativi e informatici e di univoca lettura. Un convincimento del giudicante che potrà passare da libero a protocollato. Il tutto mediante sofisticati programmi algoritmici o altre esoteriche diavolerie… di facile lettura… soprattutto per i difensori. E il vigente libero convincimento? Sempre più anacronistico, presumibilmente verrà rammentato dai posteri allo stesso modo di come, oggi, quasi in un’aura di mistero sbiadiscono nel ricordo il significato dei diritti quesiti e forse anche quello di stato di diritto, oppure il domestico giudizio del praetor peregrinus romano o la sacralità della privacy o il povero Dodo dell’isola Maurizio.

 

Perché quei mattoncini del percorso logico verso codesto convincimento, che oggi chiamiamo sillogismi giudiziari, sono destinati ad avere conclusioni pressoché “necessarie” – né più né meno delle analisi cliniche – per via di massime di esperienza non più orecchianti o a spanne (al telefono ha detto che voleva “due chili di farina”… sì è vero fa il fornaio ma per mia esperienza “farina” in gergo significa “cocaina”) ma consistenti in rigorose norme tecniche. Gli esami genetici e vocali, i riconoscimenti facciali e in genere somatici, le videoregistrazioni Trojan e gli incroci capillari di tabulati e bigdata, le relazioni di intelligence e degli infiltrati sotto copertura e così via, insomma l’osservazione flagrante del grande fratello, potrà/potranno – senza una specifica attenzione ai diritti di difesa, per ora solo in mente Dei – lasciare spazi opinabili e, quel che più conta, ogni volta compiutamente e dialetticamente verificabili?

 

In conclusione, siccome da una parte la sicurezza internazionale rischia davvero di essere gestita mediante quegli algoritmi, e accertamenti tecnici, e misure di prevenzione e di sicurezza patrimoniali e personali sempre meno giurisdizionali e sempre più dotati di immediata autoritarietà (si spera nei limiti dell’art. 13 della Costituzione), dall’altra i magistrati, non solo da noi ma dappertutto, rischiano per il futuro di restare relegati nel ruolo di controllori della regolarità di protocolli e accertamenti tecnici e consulenze e perizie, e di poter interloquire in seconda battuta quale giudice dell’impugnazione circa “fatti compiuti” – ci si augura con professionalità finemente specializzate, “come si permette!?”, pare abbia esclamato ultimamente un pm di primo pelo a un maresciallone che gli aveva chiesto di disporre un accesso al Trojan – solo o soprattutto sulle modalità di introiezione degli elementi di prova. E allora ecco cosa si profila – minacciosamente? – all’orizzonte, un salto epocale dall’èra del sapere logico-giuridico a quella della sperimentazione tecnica, dall’èra del giudizio di cognizione a quella dell’accertamento scientifico, in ultima analisi dall’èra dei giudici a quella dei periti d’ufficio e di parte.

 

Come se non bastasse tutto ciò solo per la parte importante, quella “scremata”, in quanto non va trascurato come già oggi i sistemi giustizia tendano o, meglio, per sopravvivere siano costretti preliminarmente ad autolimitarsi, anzi a sgravarsi del carico appoggiandosi al settore privato… per farlo premorire… mors tua vita mea. A tal fine costruendo ponti d’oro a negoziazioni, mediazioni, patteggiamenti (negli Usa circa il 90 per cento delle cause civili muoiono per transazione prima dell’inizio e quasi altrettanto accade con i patteggiamenti in quelle penali). E come? Mediante vie di fuga deflattive ed edificate sostanzialmente su di una delega agli amministrati, basta che finisca e si arrivi al dunque. Governanti e e controllori che delegano la soluzione a governati e controllati. La futura fiera di un giudizio diverso, in definitiva, che fa gridare “evviva!” per iniziative come queste della Fondazione Einaudi e dell’Unione Camere Penali e di Annalisa Chirico. Mi auguro di prendere un granchio ma il mio timore è che ce ne vorranno sempre di più. Bah!

 

“Papà, rispetto a te Cassandra mi fa un baffo!”, dice una delle mie figlie, terzo anno di legge con tutti 30 e lode, un portento e non perché è mia figlia; passando alle mie spalle deve aver sbirciato senza che me ne accorgessi. “Sii sereno paparino, siamo ancora in tempo”, continua, “basta tenere aperti gli occhi, alte le antenne e non demordere, come diciamo noi giovani”. “Non dire sereno, cavolaccio, mi fai salire la pressione”. “Va bene, sii tranquillo paparino e cerca di mobilitare un sano ottimismo della volontà se non della ragione. Pensaci e ti accorgerai che hai un solo problema, una fottuta paura nei confronti di tutto ciò che sa di tecnologico. Svegliati, nella rete si vive bene, non sei mai solo e ti protegge , anche la nonna diceva che solo i malintenzionati la temono. Non ti preoccuperai mica della privacy, paparino?! Di un valore appartenente al passato ormai da anni?!”.

 

La guardo e devo avere un’espressione incredula – oltre che infastidita per come la mocciosetta si sta allargando – visto che prosegue calcando i toni: “Non siamo mica come voi, noi urleremmo come ossessi sulle barricate se qualche furbino sostenesse che la libertà di uno è poca cosa a fronte della sicurezza di tutti. Troppo moderni e scafati per cadere come voi nella trappoletta e per non sapere, d’altra parte, che proprio la sicurezza è essenziale, un ombrello a protezione di ogni seppur minima libertà”. “Lo dicevano anche un secolo fa e…”, accenno timidamente ma vengo interrotto dalla iena. “Ma voi non avevate compreso che la libertà, proprio come un calice di cristallo, non può essere tagliata a fettine. E poi spiegati meglio, perché a me pare che tutto quello che temi corrisponda stranamente a tutto quello che auspichi: una separazione delle carriere che nel concreto non può che essere necessaria e nettissima, come in ogni altra parte del mondo. Con il pm sovrano gestore e garante di quelli che chiami accertamenti tecno-scientifici di natura quasi amministrativa e il giudice là in alto, lontano e terzo quasi come una corte di giustizia, a tutela di regolarità e inferenza delle indagini.

 

Non è così? Non è che in ultima analisi sei solo terrorizzato dalla modernità, da una tecnologia che a me pare più affinata e basta e a te sempre più pervasiva, da protocolli investigativi sempre più scientifici e dall’idea che quel tuo benedetto convincimento da libero e logico possa diventare sempre più meccanico? Ma stai scherzando, diffidenza verso la scienza e nostalgia per le massime d’esperienza del buon padre di famiglia? Per non soccombere bisogna marciare al passo con i tempi, come dice il mio professore di Sociologia applicata! E allora non puoi che sorridermi e star sereno anzi tranquillo, paparino d’oro. Chi può dubitare che la giurisdizione sia valore assoluto e non relativo! ci mancherebbe altro! ma lo è solo in riferimento alla terzietà di chi decide, per il resto non può che essere strumento diacronico, adattato ai problemi del momento e perciò necessariamente mutevole quanto a modalità di esercizio. E siccome sai molto meglio di me che, nella storia, prima del tuo libero convincimento c’è stato di tutto, non solo l’ordalia, siccome lo sai, sursum corda padre uggioso e diffidente”.

 

Mi secca ammettere che sia bastato codesto breve sproloquio per intravedere – sarà l’affetto paterno? o la mancanza di alternative? o solo un miraggio? – uno spiraglio anzi uno spiraglietto tra il nero che vedo all’orizzonte e con qualche sforzo riesco ad addolcire lo sguardo per mia natura grifagno. Concludendo, nel profondo del cuore, che ad ogni modo l’iniziativa della Fondazione Luigi Einaudi e la mobilitazione dell’Unione Camere Penali e l’esistenza di movimenti tipo “Fino a prova contraria” mi rassicurano. Ma non completamente, perché il guado pare lungo e periglioso… con una riva opposta almeno per me ancora ignota.

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