Una fogliata di libri

Il Monaciello di Napoli

Lorenzo Pataro

La recensione del libro di Anna Maria Ortese, edito da Adelphi (685 pp., 12 euro)

Ci sono voci della nostra letteratura che già ai prodromi hanno saputo far brillare una scrittura e una lingua le quali negli anni non avrebbero fatto altro che mostrare sempre di più come quei diamanti grezzi erano solo le prime micce del grande fuoco. È il caso di Anna Maria Ortese, di cui Adelphi ha  riportato in libreria in una nuova edizione due racconti-gioiello come Il Monaciello di Napoli e Il Fantasma, apparsi rispettivamente nel 1940 sul mensile Ateneo Veneto e tra il 1941 e il 1942 sulla rivista Nove maggio. Entrambi mostrano come la scrittrice appena venticinquenne avesse già quel talento nel dare piena voce al perturbante, all’ignoto, alla morte, al diverso, già “zingara assorta in sogno”, come la definì Italo Calvino.
 

Nel primo, la famosa leggenda napoletana viene risemantizzata nei significati antropologici narrando magneticamente di una strana amicizia tra Margherita, figlia del guantaio Giorgio Di Gasparre (che racconta la storia anni dopo a sua nipote, dietro la quale si nasconde come alter ego la stessa Ortese) e il monaciello Nicola, “il più caro, il più bello, il più buono dei monacielli che funestassero e rallegrassero insieme, in quel tempo, le case dei Napoletani”, nascosto nell’armadio di una stanza del suo appartamento nel quartiere Santa Lucia. Un’amicizia tratteggiata progressivamente come una piccola educazione sentimentale, se la bimba impara cos’è l’amore e il dolore e cosa significa sentirsi madre di qualcuno al di là dei legami sanguigni, attraverso quel microcosmo caratteriale che il monaciello, ora repellente ora tenero, dentro di sé assomma. E una Napoli dipinta dalla penna come fosse un quadro in alcuni passaggi che valgono da soli la lettura del racconto: “Case dai balconi pieni di fiori nella severa e scura facciata si alternano a giardini chiusi da alti muri (…) dame, reggendo in pugno l’ombrellino, e con l’altra mano rialzando, un poco, la lunga gonna, attraversavano le vie entrando nei negozi (…) le chiese si distinguevano per la loro cupola verde-oro, per la facciata azzurra affollata di draghi, navicelle, marinari e colombi”.
 

Nel secondo emerge invece una certa teatralità onirica nel mettere in scena una versione capovolta della realtà. La giovane protagonista assiste alla rievocazione di un passato perduto in cui i suoi “Parenti” magicamente rivivono in un salotto che mostra una Napoli decadente eppure ancora legata a una tradizione di sfarzo. Lo zio Alberto e i suoi figli, nati dalla sua immaginazione, diventano il pretesto per dialogare con la Morte e per arrivare a dimostrare, con una scrittura continuamente vibratile, la verità più grande e più semplice di tutte: che l’amore in fondo vince sempre.

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