Elaborazione grafica di Enrico Cicchetti

Joseph Joubert, lo scrittore che non scrisse mai un libro

Rinaldo Censi

Sono 1.305 le pagine dei suoi “Carnets”, curati da André Beaunier e pubblicati da Gallimard nel 1938. Maurice Blanchot nel suo “Il libro a venire” gli ha dedicato pagine ancora oggi assai avvincenti

Di Joseph Joubert esistono pochi ritratti. In uno di questi appare giovanile, di profilo, naso lungo, folti capelli ricci e sopracciglia marcate. Un’immagine che stride con i dati contenuti nel suo passaporto, redatto all’età di 67 anni. Morirà tre anni dopo: nel 1824. Altezza un metro e ottanta, fronte spaziosa e – sorpresa – niente capelli. Il documento allega un segno particolare: l’uomo porta una parrucca. E’ l’unico vezzo che questo “autore senza libro" si sia mai concesso, insieme a certe cuffie di cotone e gilet di seta piqué. Era nato a Montignac-le-Comte settant’anni prima. Nel 2024 si celebrano i duecento anni dalla sua morte. Un data destinata a passare inosservata. Abbiamo detto, infatti: “Autore senza libro”. Dobbiamo questa formula a Maurice Blanchot, che nel suo “Il libro a venire” ha dedicato a Joubert pagine ancora oggi assai avvincenti: “Joubert ebbe questo dono. Non scrisse mai un libro. Solo si preparò a scriverne uno, cercando con risolutezza le condizioni giuste che gli avrebbero permesso di scriverlo. Poi, dimenticò anche questo progetto”. 


1.305 sono le pagine dei suoi “Carnets”, curati da André Beaunier e pubblicati da Gallimard nel 1938 in un’edizione filologicamente corretta. Ciò ha permesso di risolvere un equivoco di fondo, affrancando Joubert dalla tipizzazione dello “scrittore di massime”: un moralista, simile a Chamford, La Bruyère, Vauvenargues. Alla sua morte, sono centinaia i taccuini, numerosissime le lettere, gli appunti, le pagine ritrovate. L’amico Chateaubriand, per primo, darà una forma a questi materiali, curando, nel 1838, una silloge intitolata “Recueil et pensées procurées par Chateaubriand”. Proprio il termine “pensieri”, ripreso nelle successive edizioni, ha per molti anni reiterato l’equivoco. Le scelte arbitrarie, i raggruppamenti tematici, insomma, il montaggio dei materiali, alteravano la struttura del suo progetto, che era invece eminentemente “diaristico”. Ancora Blanchot: “Quello che ha scritto, l’ha scritto quasi ogni giorno, datandolo, senza dargli a proprio uso altro riferimento che la data, né altra prospettiva che il fluire dei giorni che glielo portavano. Così deve essere letto”. Al posto della saggezza “cautelosa, ma indifferente” dei Pensieri, i Carnets, insiste Blanchot: “Ci sono restituiti intrisi del caso e del premere della vita”. 


In giovinezza amico di Diderot, giudice di pace, presidente di tribunale e poi ispettore dell’Università imperiale, si sposa, non disdegna i salotti, mantiene fitte corrispondenze, soprattutto con M.me de Ventimille con la quale intrattiene “un’ardente e delicata amicizia”, indica la biografia che accompagna, nel 1943, lo smilzo “Diario” pubblicato da Einaudi. Le poche edizioni italiane non hanno ancora reso giustizia al movimento della sua scrittura. Descrizioni, haiku laconici, brevi note, frammenti: nei “Carnets” non c’è argomento che non venga sviscerato. Tutto è colto nel ritmo instabile della quotidianità (scrive il 14 gennaio 1814: “Sono come Montaigne inadatto al discorso continuo”). Sorta di Monsieur Teste sotto Napoleone (lo chiama così Jean Louis Schefer), Joubert ha redatto le sue pagine pensandole già postume. Nella quiete della sua stanza, ha passato il tempo trasferendo su carta un monologo discontinuo, rapportandosi in maniera obliqua con il mondo turbolento in cui si trovava a vivere, facendolo reagire con l’immaginazione, la memoria. In una massa di fogli senza data leggiamo “ – e la mia immaginazione ha sulle mie mani un singolare impero”. Doveva essere così. 

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