Alba de Céspedes (elaborazione grafica di Enrico Cicchetti) 

una fogliata di libri

Se la domestica che se ne va è la metafora del giudizio sociale

Giulia Ciarapica

Il racconto lungo “Prima e dopo” di Alba de Céspedes torna in vita grazie a Cliquot

Fu una rivoluzionaria di gran temperamento, una scrittrice e un’intellettuale che a metà degli anni Quaranta, mentre l’Italia stava per essere liberata, fondò la rivista “Il Mercurio”, nella quale convergeva l’intellighenzia italiana di quegli anni. Ma quando l’Italia entrava in guerra, lei aveva già all’attivo diversi racconti e un romanzo da cui fu tratto un film d’ottima riuscita. Aveva soltanto ventinove anni e si chiamava Alba de Céspedes.


Possiamo annoverarla fra le scrittrici italiane del Novecento di cui oggi si legge ancora poco – a scuola come nei circoli e nelle biblioteche? Forse sì, ma è vero che la ripubblicazione di chicche come “Prima e dopo” (che torna in vita, dal 1955 a oggi, grazie a Cliquot) aiuta il pubblico dei giovani a conoscere un’autrice coraggiosa e sfacciata, che diede vita a romanzi come “Quaderno proibito” e “Dalla parte di lei”. Un’autrice che non si tirò indietro nel racconto della solitudine delle donne indipendenti, che fece sua la voce prepotente della femmina cui spetta una vita di sacrifici ma anche e soprattutto di scelte libere.

 
Ragione o felicità, è questo il dramma, la grande ironia, l’unico vero problema attorno a cui ruota il racconto lungo “Prima e dopo”, nel quale una giovane protagonista, Irene, si trova già libera, spoglia di tutti i fronzoli della società borghese: no matrimonio, no aspettative materne, no convenzioni. Lei è “pronta” ed è un’intellettuale. Corre avvantaggiata dunque, ma non è questo il punto. Se la partenza è ottima, a esser costellato di dubbi è il punto d’arrivo: il turning point è un abbandono, non di un uomo, non della famiglia ma di una domestica, Erminia.

 
Il tema dell’abbandono in questo racconto di de Céspedes non è che un pretesto per affrontare un problema che, nonostante la libertà conclamata della protagonista, risuona antico e sempre uguale a sé stesso. La domestica che se ne va è una metafora concreta del giudizio sociale: non, semplicemente, opinione del singolo, ma giudizio collettivo, e per questo ha valenza universale. E’ proprio a partire da questo abbandono, infatti, che Irene mette in discussione tutto quanto, il suo mondo, la sua quotidianità, l’amore per e con Pietro, la sua professione. Chi è Irene senza Erminia? Una donna sola, anzitutto. Una donna sola e affannata. Ma anche, e sempre, una donna libera, una donna che ha voluto esser sola e libera, dunque affannata.


In questo racconto pieno di domande in continua rottura con qualunque dogma borghese dell’epoca, de Céspedes alza la voce brandendo la spada della rivendicazione dell’autonomia, poi però fa un passo laterale – non indietro, attenzione, lei non indietreggia mai – e osserva le conseguenze dirette di quella scelta d’indipendenza. Cosa ha prodotto? Una donna che non ha più “il senso del peccato”, l’unico elemento che l’avrebbe ancora legata all’universo maschile. Senza peccato, senza la percezione del brivido per il pericolo imminente, senza il proibito che solletica anche quando genera fastidio, la donna è libera, svincolata dall’uomo.


Se Erminia è la solidità della vita borghese (garantita dalla materialità del peccato), Irene è la donna che deve scegliere fra ragione e felicità, fra bollette e libertà, e una pelliccia di visone da indossare assieme alle altre casalinghe nelle uscite settimanali.
Di sicuro, de Céspedes ha le idee chiare, e ha già optato per la felicità della ragione, che è libertà.
 

Di più su questi argomenti: