Una fogliata di libri

Un mondo in cui siamo tutti bambini confusi ed espropriati

Matteo Marchesini

Rileggere “Confusione di lingue tra gli adulti e il bambino” dello psicanalista ungherese Sándor Ferenczi per capire il nostro universo comunicativo

A differenza di altri pionieri della disciplina, il geniale psicoanalista ungherese Sándor Ferenczi, morto novant’anni fa poco prima di compiere i sessanta, non recitò davanti al padre Freud il ruolo dell’eretico. Eresia presuppone scelta, irrigidimento; mentre l’inquieta vicenda di Ferenczi è caratterizzata da una flessibilità temeraria nell’interpretazione dei concetti freudiani. E uno dei problemi di questo ricercatore, generoso fino all’autodissipazione, è proprio l’incapacità di separarsi: dal maestro, dai pazienti. Un’antica carenza d’amore lo spinge ad annullare il distacco analitico. Ferenczi va incontro al malato derelitto come a un altro sé stesso – come a un cucciolo sopraffatto da una violenza che ha oscuramente introiettato, e dalla quale dunque non sa distinguersi. Pochi mesi prima di morire, ruppe con Freud appunto a causa di un breve saggio sull’argomento, “Confusione di lingue tra gli adulti e il bambino”. Dal 2002 il lettore italiano può trovarlo nelle “Opere” ferencziane pubblicate da Cortina; ma oggi, dopo anni di social e dibattiti sull’identitarismo, acquista un senso più ampio. In queste dieci pagine, l’autore racconta di come si è accorto dell’odio covato nei suoi confronti da alcuni pazienti fin troppo docili; e di come, dopo averli invano incoraggiati a esprimerlo, abbia compreso che i nevrotici di quel tipo “avevano una sensibilità estrema” per gli umori dell’analista, al punto che anziché contraddirlo o incolparlo s’identificavano con lui.

Ferenczi scopre quindi che se si mette per primo in discussione, ragionando su un proprio errore o sentimento ostile, le cose cambiano. Ipotizza così che la “mancanza di sincerità” del setting sia stata fino allora paralizzante per il paziente, perché sovrapponibile alla situazione che nell’infanzia ne ha provocato la nevrosi, e che implicava una freddezza o ira da lui avvertite ma negate dai famigliari, secondo il paradigma poi chiamato da Bateson del “doppio legame”. A questo punto c’è un colpo di scena: Ferenczi riconduce la situazione originaria a un abuso sessuale reale, basato su un equivoco doloso che parifica desiderio infantile e adulto. Il bambino era tanto debole e impaurito da non poter reagire difendendosi, ma solo con la resa totale, anzi identificandosi con l’aggressore (del tema si occuperà Anna Freud) e sviluppando un senso di colpa accresciuto magari dalla successiva ostilità di chi l’aveva violentato. Di qui la confusione, e la scissione: da una parte la vittima regredisce, dall’altra progredisce in maniera abnorme, maturando un’intelligenza chiaroveggente riguardo alla volontà dei grandi. Davanti ad adulti folli (abusanti, o ricattatoriamente lamentosi, o iperprotettivi ma ciechi rispetto ai suoi veri bisogni) il bambino smette di vivere la propria vita e diventa un saggio psichiatra (siamo nei pressi del “falso sé” di Winnicott). Ora, riletto nel 2023, questo scritto non può non ricordarci il nostro universo comunicativo, che decontestualizza e ricontestualizza di continuo ogni espressione attraverso meccanismi di potere sempre meno interpretabili dai singoli. Siamo tutti bambini confusi ed espropriati: come scriveva Siti in un suo romanzo dedicato proprio alla pedofilia, “dove le lingue si mescolano scioccamente le anime non migliorano”. Ma c’è di più: gli Io delle categorie oppresse, quando provano a emanciparsi in una sfera pubblica dominata da queste dinamiche, anziché ritrovare l’integrità rischiano di sostituire l’antica alienazione con un’altra, che si presenta sotto il linguaggio falsamente liberatorio dei media. Servirebbero dei direttori di coscienza capaci di relativizzarsi. Ma può l’autorità esporsi al suo contrario, cioè alla critica? Difficile, se non si ha la statura di Ferenczi. Specie in un’epoca in cui anche gli psicologi, gli ideologi e i filosofi hanno un’identità incerta, e per nasconderlo si truccano da coach.

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