DIDA Kate Reid in una scena del film “The Andromeda Strain”. (Elaborazione E. Cicchetti da foto Universal Pictures/Getty Images)

Una Fogliata di libri

E se rileggessimo Amleto alla luce dei Veda indù?

Edoardo Rialti

Il dramma elisabettiano alla luce della Baghavad Gita o dei Veda Indù

"The play is the thing… Il dramma è la cosa”, sentenzia Amleto. Un attore che interpreta un personaggio che si riconosce tale, squarciando il sipario. Si potrebbe rileggere l’intero dramma elisabettiano alla luce della Baghavad Gita o dei Veda indù. Il concetto di Maya – solitamente tradotto come illusione – ha una valenza assai più vasta, essendo appunto la stessa radice semantica di ludus, gioco, magia, spettacolo teatrale. Maya è la recita di Dio che si fa personaggi, identificandosi al punto da dimenticare la sua vera identità. E Maya sarà anche la madre di Buddha, l’ultimo demistificatore, attorniato da una luce di crepuscolo. Vedersi da fuori, recitanti che si credono personaggi, e che comunque devono portare avanti il dramma, coinvolti dalle passioni agite e subite eppure capaci di intuire che c’è qualcosa al di là del costume e dei gesti, che questo sono soltanto momenti di un flusso più vasto che li comprende e supera, che abbraccia il palco stesso, il vuoto tra le figure singole, il pubblico. “In me c’è qualcosa che supera lo spettacolo”, dichiara il principe danese. Essere Campo e Conoscitore del Campo, proclamava Krishna ad Arjuna. Aspiriamo a uno stato dell’essere e invece incappiamo in una mera, straziante, frustante ed esaltante, sequenza di eventi. “L’attenzione è la forma laica della preghiera”, rifletteva Benjamin. Simone Weil non vi avrebbe visto alcuna opposizione duale, per lei il focus su questa tensione era uno e indiviso. Si tratta sempre della stessa questione amletica, “the hard problem” dei neuroscienziati contemporanei, indagata millenni fa con perizia proustiana dai rishi hindu: cos’è la coscienza, cosa vuol dire essere consapevoli che si sta pensando, che la mente stessa è un costrutto della mente? Francesco D’Isa e Adriano Ercolani in “Introduzione alla meditazione” (Tlon) da due diverse prospettive ripercorrono la storia stessa della meditazione orientale e occidentale e le sue implicazioni filosofiche, il superamento di “nama-rupa”, il binomio “nome forma” con cui da sempre cerchiamo di iscrivere l’universo. Un percorso che mancava nella sua panoramica, limpido e spesso divertentemente controintuitivo: “le tradizioni spirituali sono longeve tra gli indiani non perché non abbiano avuto l’illuminismo, ma perché lo hanno avuto molto prima dell’occidente”. Un viaggio nel tempo e lo spazio, tra scuole, dottrine e tecniche, interrogandosi su quanto sia possibile cogliere una effettiva sapienza universale, dove convergono le diverse strade per scalare la montagna dell’io, dall’esicasmo ortodosso ai mantra tibetani, dalla non-dualità indù al misticismo della presenza costante dei sufi, e al tempo stesso quanto possibile trasferire tali percorsi di liberazione in orizzonti antropologici diversi dai contesti che li hanno plasmati, senza per questo incorrere in banalizzazioni consumistiche, lo yoga (radice indeuropea della stessa parola yoke-giogo) ridotto a salutismo. Le tracce si confondono, ma l’intuizione-lampo di Rilke, contemplando il torso di Apollo, resta: “Devi cambiare la tua vita”. Gli faceva eco Battiato: “Non servono tranquillanti o terapie, ci vuole un’altra vita”. Lo sprofondamento per risalire il fiume della coscienza di essere al mondo, non appartiene appunto a questa o quella sapienza, a Siddartha sotto l’albero a Ganja. Lo sapeva bene Platone, che ci racconta un Socrate seduto per ore, immobile, nell’accampamento militare, “fermo a seguire le sue idee”, mentre i commilitoni lo osservano stupiti.

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