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La tela di amleto

Nicola Fano

C’è un tortuoso filo di creatività che unisce, tra Italia e Inghilterra, Annibale Carracci, Domenico Robusti e William Shakespeare

 

Ma Annibale Carracci l’avrà capito che stava dipingendo Amleto? E, pochi anni dopo, Domenico Robusti, il figlio di Jacopo, insomma Tintoretto jr, lo avrà saputo d’aver ritratto Otello? Fra Italia e Inghilterra, nel tortuoso passaggio dal Cinquecento al Seicento, era tutto un andiriviedi di suggestioni, informazioni, fantasmi e frammenti di immaginario condiviso. Si dice che all’epoca le notizie viaggiassero molto lentamente: può darsi, ma a metter le mani su tutto ciò che unisce – appunto – Annibale Carracci, Domenico Tintoretto e William Shakespeare spunta qualche dubbio. Anzi, viene da pensare a una certa, insospettabile circolarità di tensione creativa, forse nel segno di un post Rinascimento comune, dall’estremo sud all’estremo nord dell’Europa di allora. Un circolo virtuoso che ha al suo centro Venezia. 
Ma vediamo i fatti (che occupano appena un pugno d’anni).

 E’ il 1585 e Annibale Carracci, pittore bolognese che sarà celebre soprattutto a Roma dalla fine del secolo, dipinge tre fra le sue opere più singolari: il Mangiafagioli (ora è alla Galleria Colonna di Roma), la Grande macelleria (è alla Christ Church Picture Gallery di Oxford) e Ritratto del medico Bossi (al Louvre). Tre quadri, per giunta, che con ogni evidenza non hanno nulla a che vedere con l’iconografia religiosa imperante: una scelta decisamente ardita, per l’epoca. Perché si tratta di tre dipinti che imboccano la strada della cultura popolare e della nascente borghesia. Seguendo la storia delle prime due arriveremo alla terza che, qui, è il nostro vero obiettivo.

 

Della genesi del Mangiafagioli – ossia di quando questa tela sia stata esattamente dipinta, perché e per chi – non si sa nulla. Come se non bastasse, nel corso del Novecento essa talvolta è stata assegnata ad altri pittori. Il grande Roberto Longhi, per esempio, l’attribuì a Bartolomeo Passarotti, un artista bolognese quasi contemporaneo di Annibale Carracci: l’opinione longhiana fu determinata dal fatto che Passarotti aveva già realizzato svariati ritratti di personaggi rozzi e popolani, mentre per Carracci era una novità. Ma ormai, da oltre mezzo secolo, almeno questo mistero del Mangiafagioli è stato risolto e nessuno più gli nega la paternità carraccesca. Soprattutto in virtù della perfezione stilistica dei particolari, caratteristica tipica di Carracci.

In più, alcuni studiosi hanno voluto identificare in quel mangiatore rustico e finanche un po’ volgare un attore, uno zanni della Commedia dell’arte; vale a dire un servo peculiare d’un genere teatrale che proprio in quegli anni (siamo nel 1585, ricordiamolo) stava vivendo la sua stagione più feconda, sovversiva e popolare. Anzi, proprio in virtù di tale enorme successo è stata formulata questa ipotesi all’inizio del secolo scorso: perché solo grazie alla Commedia dell’arte, nella seconda metà del Cinquecento, la quotidianità del popolo (ossia quel pezzo di società privo di rappresentanza) ottenne visibilità artistica. Condizionato da questa novità culturale e creativa (tipica dei territori tra Emilia, Veneto e Lombardia, dove il pittore operava in quel periodo), Annibale Carracci potrebbe aver deciso di rivolgere la sua attenzione proprio a quel mondo popolare con questa sua stravagante opera.

 

Andiamo avanti. La Grande macelleria (chiamata così per differenziarla da una tela più piccola ma di identico soggetto) compie un ulteriore salto mortale. Perché, se l’ipotetico attore del Mangiafagioli poteva almeno vantare un vasto successo popolare, il soggetto della grande opera in questione (quasi due metri per tre) è una pura e semplice bottega artigiana che cola sangue da quarti di bue e da camici sudici. A essere sinceri, si tratta di una scelta iconografica non unica nella storia dell’arte a cavallo tra manierismo e barocco, ma il realismo e la crudezza del tratto di Carracci sono veramente incomparabili.

 Eppure, non è questo che conta qui, bensì l’avventura del dipinto una volta completato. Fino al 1627 non si hanno indizi della sua esistenza (la sua datazione è basata solo su deduzioni stilistiche) ma in quell’anno fatidico, ossia quarantadue anni dopo esser stato realizzato, un documento attesta che esso lasciò la sua prima residenza, vale a dire i domini mantovani dei Gonzaga, dinastia ormai in via d’estinzione, per andare ad adornare i saloni di Carlo I Stuart. Ossia il re di Scozia e d’Inghilterra, figlio di Giacomo, erede e successore di Elisabetta Tudor. La notizia ci interessa per due motivi. Il primo riguarda i Gonzaga: essi, che evidentemente avevano avuto rapporti con Annibale Carracci tanto da possederne un’opera così singolare, al tempo della realizzazione della Grande macelleria – ossia alla fine del Cinquecento – erano stati tra i primi estimatori della Commedia dell’arte nella cerchia delle aristocrazie italiane.

 

Il più illuminato della dinastia, Vincenzo Gonzaga, per esempio, aveva concesso il monopolio delle attività teatrali nella città e nel territorio di Mantova a Tristano Martinelli, vale a dire l’attore che la storia ricorda come colui che per primo codificò la maschera di Arlecchino (detto tra parentesi, benché fosse un collettore di tangenti, i suoi colleghi dell’epoca, nei propri epistolari, lo ricordano sì come avido, ma anche come il più grande talento scenico del tempo). Insomma, Martinelli, amico e sodale dei Gonzaga al punto che Vincenzo gli tenne a battesimo un figlio, fu un eroe del teatro popolare vezzeggiato anche dalla cultura ufficiale. Per dire, alle Gallerie dell’Accademia di Venezia esiste un suo magnifico ritratto dipinto nel 1621 da Domenico Fetti, quando Marinelli era ormai vecchio e celebrato. E’ del tutto plausibile, insomma, che Annibale Carracci ne conoscesse la fama e, dunque, lo è anche l’ipotesi che Mangiafagioli possa essere l’effigie di un attore, sia pure un collega meno fortunato di Tristano Martinelli.

Ma è ancora più significativo il secondo motivo di interesse nella storia della Grande macelleria: ossia la sua destinazione, Londra. Se nel 1627 un bene tanto stravagante del Ducato in disfacimento dei Gonzaga è stato acquisito da Carlo I Stuart, vuol dire che la fama di Annibale Carracci doveva essere arrivata da tempo Oltremanica. Ebbene, con Carracci in vita (morì nel 1609), quell’estremo lembo di Europa era stato governato prima da Elisabetta Tudor (fino alla morte nel 1603) e poi da suo nipote Giacomo I Stuart. Che, come abbiamo già detto, era il padre del Carlo in questione. Insomma, ormai sarà apparso chiaro che questo indizio ci conduce direttamente nel cuore dell’Inghilterra elisabettiana: quella felice stagione della quale il teatro fu lo specchio più devoto e sfavillante. E che probabilmente doveva avere qualche contezza dell’arte di Carracci. E, forse, viceversa.

 

Ma a questo punto, proprio lì nell’Inghilterra di Elisabetta, entra in gioco la terza opera che segna il 1585 di Annibale Carracci: Il ritratto del medico Bossi. Basta guardarlo per capire dove siamo. E’ il ritratto di un uomo dall’aria nobile: i gioielli che ne adornano le mani ci dicono che doveva essere ricco e potente. La blusa nera chiusa da un colletto bianco orlato di pizzo ne esalta l’eleganza trattenuta, quasi luterana, se confrontata agli sfarzi consueti nella pittura italiana contemporanea (pensate ai convitati delle Cene del Veronese…). Il personaggio tiene nella mano destra una lettera mentre con grande familiarità appoggia la sinistra su un teschio. Insomma, lo avrete capito: quest’uomo è Amleto. Identica, infatti, è l’iconografia che ha consegnato alla storia il più celebre personaggio di Shakespeare. 

Il primo attore che si sia cimentato con il principe di Danimarca, ossia quello per il quale Shakespeare lo scrisse, si chiamava Richard Burbage e nel 1601 – anno del presumibile debutto di Amleto – era già un divo assoluto. Di lui si conservano alcuni ritratti di incerta datazione: nessuno di questi lo mostra nel costume di Amleto, ma è sempre, immancabilmente vestito con una blusa nera arricchita da un colletto lungo e bianco. Come il personaggio di Carracci, dunque. Viceversa, esistono testimonianze iconografiche dirette di tutti i più grandi interpreti inglesi specificamente nel ruolo di Amleto: da David Garrick a Edmund Kean, da Laurence Olivier a Kennet Branagh. E tutti costoro, immancabilmente, hanno interpretato quella parte con un costume sostanzialmente identico a quello del presunto “medico Bossi” di Annibale Carracci. Ciascuno, sempre, con un teschio in mano, a rammentare la celebre scena nella quale Amleto dialoga con quel che resta del fool Yorick.

Insomma, parrebbe inevitabile far scivolare l’identità del “medico Bossi” su quella del principe di Danimarca. Se non fosse per un piccolo particolare: il ritratto di Carracci precede di sedici anni il debutto di Amleto. Troppi. Volendo, semmai, il dipinto del pittore italiano potrebbe essere una prova a carico di quanti affermano che il testo del 1601 sarebbe la riscrittura di un Ur-Hamlet composto dallo stesso Shakespeare in precedenza. Ma, a parte il fatto che di questo ante-Amleto non ci sono tracce storiche certe, se ne hanno, viceversa, del fatto che nel 1585 Shakespeare, ventunenne, se ne stava tranquillo a Stratford-upon-Avon, in tutt’altri mestieri occupato, oltre che a battezzare i due figli gemelli Judith e Hamnet (tranquilli: con la “n”, a esprimere un nome molto comune nell’Inghilterra di allora, per altro quello del padrino di battesimo di questo figlio di Shakespeare). E, come non bastasse, la prima notizia certa di Shakespeare teatrante, a Londra, è soltanto di sette anni più tardi, del 1592. Insomma, il fatto è che probabilmente già a quell’epoca un fantasma s’aggirava per l’Europa…

 

Non è un fantasma, invece, quello che si trova a New York, nel cuore di Manhattan, nelle sale del Morgan Museum. Tuttavia si tratta di un quadro misterioso, che J.P. Morgan, Jr. – figlio del fondatore della collezione, colui che la trasformò da privata in istituzione pubblica – acquistò nel 1929 da una galleria londinese. Il titolo del dipinto varia a seconda degli studiosi: Ritratto di un uomo o Ritratto di un moro. Anche sull’attribuzione ci sono ancora delle incertezze: il museo americano lo assegna alla “bottega di Domenico Tintoretto”, mentre altri (l’archivio Zeri, per esempio) lo considerano direttamente opera del figlio di Jacopo Robusti. La particolarità di questa tela è che ritrae un uomo di pelle nera dall’atteggiamento sobrio ed elegante. Anche lui, come il medico Bossi di Carracci, ha le mani ingioiellate, anche lui ha una casacca scura con un colletto bianco, salvo che a stringere l’abito, a mo’ di cintura, c’è una bellissima sciarpa bianca. L’individuo, rivolto verso destra, tiene la mano sinistra nel girovita e l’altra poggiata su un tavolo sul quale campeggia un plico di lettere chiuse con la ceralacca. Posta importante, all’epoca: documenti ufficiali.

 

La datazione del quadro è meno incerta: l’opera è ritenuta da tutti dipinta nel 1600. A quel tempo, morto il vecchio Tintoretto sei anni prima, la sua bottega continuava ad essere prospera e richiestissima dalla nobiltà veneziana. Perché il figlio Domenico, oltre ad aver aiutato lungamente il padre sul lavoro, aveva ricevuto una sorta di investitura ufficiale: Jacopo Robusti, nel suo testamento, aveva indicato Domenico come colui al quale affidare la responsabilità di completare le sue opere rimaste incompiute. E infatti la sua bottega veneziana sopravvisse diversi decenni al suo creatore. Insomma: all’epoca Domenico Tintoretto era considerato all’altezza del padre. Come del resto lo era stata considerata anche l’altra figlia del pittore, Marietta Robusti, chiamata Tintoretta, la cui morte improvvisa, nel 1590, causò un crollo psicologico definitivo al padre che tanto l’aveva amata. Fino a dipingerla bambina in una celeberrima tela, la Presentazione della Vergine al tempio.

 

Il dipinto di New York è un quadro considerato storicamente molto importante perché è il primo ritratto che raffiguri un uomo di potere con la pelle nera. Un Moro, dunque. Gli studiosi hanno voluto spiegare questa stravaganza con la possibile commissione diretta dell’opera da parte di un ambasciatore orientale in Venezia: i tratti dell’uomo sono vagamente arabeggianti come pure la sua cintura. Le lettere – s’è detto per suffragare questa tesi – potrebbero essere documenti diplomatici: gli ambasciatori presso la Serenissima, all’epoca, avevano quasi esclusivamente compiti di informatori (anche a scopo commerciale), sennonché inondavano di missive le proprie corti di riferimento. Il guaio è che l’abito dell’uomo non ha alcunché di orientale. E’ questo è molto strano, per un eventuale ambasciatore arabo. Per restare a un esempio già fatto, e che fa scuola di eleganza nella Venezia a cavallo tra Cinquecento e Seicento, le Cene di Paolo Caliari, il Veronese, sono piene di ricchi arabi vestiti alla loro maniera, con turbanti e casacche dai colori sgargianti. Cosa che a Venezia, tradizionale finestra aperta sull’Oriente, era una assoluta normalità. Perché allora questo diplomatico arabo avrebbe dovuto vestire in modo tanto asciutto, come un severo nobile veneziano?

No, il ritratto di Domenico Tintoretto potrebbe nascondere un altro segreto. L’uomo raffigurato potrebbe essere un veneziano in senso stretto, sia pure, come si diceva all’epoca, un “sangue misto”: diciamo, per esempio, un comandante militare, caro alla Repubblica, un generale che forse ha appena ricevuto un plico (le lettere) nel quale il Doge gli ordina di recarsi a Cipro per difendere l’isola da un probabile attacco dei turchi... E così lui, questo nostro Moro, si fa ritrarre in fretta e furia, proprio prima di partire per Cipro, in modo da donare per ricordo la sua immagine alla giovane sposa… Insomma, avete capito: l’uomo di Domenico Tintoretto è Otello. E – nella finzione pittorica – il suo ritratto è destinato a Desdemona, salvo che la neo-moglie è intenzionata, piuttosto, a seguirlo a Cipro dove l’ha spedito il Doge. 
Direte voi: ancora una volta – come per l’Amleto di Carracci – le date non coincidono. Perché Otello di Shakespeare è del 1603 mentre il dipinto in questione è di tre anni precedente. Ma stavolta la spiegazione c’è.

La storia del Moro di Venezia era ben nota anche prima della tragedia di Shakespeare. Specie in Italia, dal momento che quello era il titolo di una celebre novella di Giovan Battista Giraldi Cinzio pubblicata nel 1565 nella popolare raccolta Gli ecatommiti. E’ da quella storia che Shakespeare trasse ispirazione per il suo copione (la novellistica italiana è stata inesauribile fonte di trame per il teatro elisabettiano): la vicenda del novelliere ferrarese è sostanzialmente la stessa. Unica invenzione, ma che invenzione!, è l’articolazione filosofico/diabolica del personaggio di Iago che in Giraldi Cinzio si chiama semplicemente Alfiere e ha un più meschino ruolo nella faccenda. Per il resto, vittima e carnefice della gelosia, ossia Desdemona e Otello, sono gli stessi. Con l’aggiunta, per quel che ci interessa, che il generale veneziano femminicida nella novella non ha nome, ma semplicemente viene chiamato Moro. E allo stesso modo, Ritratto di un Moro, lo appella il dipinto della bottega di Domenico Tintoretto. O forse di Tintoretto jr medesimo, chissà. Ma, insomma, stravolta siamo di fronte a qualcosa che è ben più che un fantasma; piuttosto, un personaggio in carne e ossa.