elaborazione grafica di Enrico Cicchetti 

Una fogliata di libri

Jean Stafford ha svelato tutta la banalità della recita adulta

Giulia Ciarapica

Pubblicato da Adelphi, è in libreria “Il puma”, di Jean Stafford, romanzo di deformazione, o meglio, di decomposizione, poiché ha tutta l’aria di un conto alla rovescia. La faccia più scomoda dell’infanzia

"L’infanzia di Ralph e di sua sorella morì nel momento stesso in cui il treno sbucò nella valle adamantina”: in questa frase ci sono tre termini interessanti, due dei quali ricorrono spesso nel romanzo di Jean Stafford, “Il puma” (Adelphi) – “infanzia” e “morì” –, mentre il terzo – “sbucò” – è quello che disturba di più, perché palesa la fine dei giochi e l’inizio del bluff, la banalità della recita adulta.

    
Di questa autrice, che portò a casa il Pulitzer con “The Collected Stories of Jean Stafford” (quattro romanzi e alcuni racconti, 1970), possiamo dire che non ha scritto un romanzo di formazione ma di deformazione, o meglio, di decomposizione, poiché ha tutta l’aria di un conto alla rovescia: non aspettiamo assieme a lei di diventare grandi, non cerchiamo il perché, il come si diventa adulti. Siamo qui per accettare la faccia più scomoda dell’infanzia, la più cruda, una specie di capolinea, quella che ci svela l’attimo in cui finisce la vita reale: quando sbuchi nella valle adamantina dove il sole batte più forte dell’ombra.


I bambini del Puma, nonostante somiglino a certi ritratti di Shirley Jackson, non sono figli del sovrannaturale né del gotico, e non sono neanche i bambini delle narrazioni kinghiane, in pratica non vestono i panni di qualcuno che abbiamo già visto. Sono nati da sé stessi, e solo per un accidente sono figli di una coppia di adulti, ma nulla hanno a che fare con loro: sono la rappresentazione carnale dell’infanzia, la condizione originaria, le ossa, l’inizio di tutto. E cos’è l’infanzia se non il distacco dal mondo, l’unico momento in cui esistiamo solo per noi stessi – duri, difficili, spietati con chiunque, solitari più che mai – la presa di posizione con cui ci allontaniamo da quello che verrà dopo di noi e che per qualche assurdo motivo conosciamo già – tutti indovini inconsapevoli, o forse solo bestie con l’olfatto buono.

  
Non è un caso infatti che sia Molly (una dei due ragazzini protagonisti) a dirlo, a quegli amici di sua madre che la vorrebbe un giorno studentessa universitaria, assieme al fratello Ralph: “Non andremo all’università, nessuno dei due, l’abbiamo deciso quando voi non eravate ancora nati”. Noi prima di voi – miopi, ciechi, pieni di quello che non serve – l’individualismo spinto all’estremo, il rifiuto dell’universo confezionato da chi c’era prima di lei, di loro, apposta per loro.


Stafford procede e mette in bocca a questo personaggio minuto e stravagante un’affermazione potente come poche: “Per me la letteratura è più importante di te, Ralph Fawcett”, ed è tutto qui, già detto, già scritto. La Letteratura viene prima dei fratelli, prima della madre e del padre, prima delle case e dei luoghi, la Letteratura precede tutto e con la sua menzogna raffinata e prepotente ci racconta i passi nel mondo, l’origine e la fine, ci parla di animali sgozzati e di bambini cui esce il sangue dal naso – Molly e Ralph, appunto – di battute di caccia che trasformano gli esseri umani in adulti e di verità nascoste dietro i simboli (“Ralph trattava i simboli della propria vita con la massima prudenza”).


Jean Stafford lo sa che il paradosso letterario è l’unica invenzione con cui parliamo della realtà, non quella che ci raccontano i vincitori, le persone sopravvissute alla prima epoca, al primo soffio, ma quelle come Molly, destinate alla vita eterna, all’infanzia che non sbuca da nessuna parte, al buco nero della verità.
 

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