“Un’opera lontana da qualsiasi normalizzazione, da qualsiasi appello alla vittimizzazione” (grafica di Giovanni Battistuzzi) 

Una fogliata di libri

La vitale sofferenza per sfuggire all'uniformazione del mondo

Michele Silenzi

Dalla lettura dei testi nella collana di Magog si emerge stremati con un senso di totale inutilità, di avere per piacere nociuto a se stessi come dopo un’orgia di vino e oppiacei. Ma abbiamo bisogno di questi eccessi come dell’aria che respiriamo

Nella prefazione all’Odissea tradotta da T.E. Lawrence (d’Arabia), i curatori scrivono “sembra un uomo espulso dal proprio tempo”, inattuale, che ha a che fare con il mito più che con la storia. Abbandonati gli ambigui e concretissimi panni del condottiero arabo-inglese, intriso di disprezzo e dopo aver cambiato nome, Lawrence era arrivato in Pakistan con un qualche incarico militare dedicandosi, nel molto tempo libero, alla traduzione dell’Odissea commissionatagli da un raffinato editore che lo riteneva l’unico adatto a quell’impresa non perché traduttore di professione ma come Odisseo moderno, eroe anonimo del vagare disperso. Di questa insolita edizione del poema, la collana Magog propone un’asciutta selezione di brani. Una traduzione della traduzione, tanto più di brani sparsi sottratti all’unità del poema. Perché? Il motivo sta nella stessa collana editoriale che è in realtà la vera “opera”, inattuale come Lawrence, formata da testi di autori che hanno in comune una potente mania vitale e quindi mortifera.

   

E infatti, “Vita, l’assalto”, come ha già raccontato Mencarelli, è una raccolta di poesie sparse di Margaret Ruddock, attrice amante di W. B. Yeats che finirà per morire, ancora giovane, in un ospedale psichiatrico. Di lei Yeats scrive: “Nobile e maestosa creatura o essere / Eroicamente smarrito, eroicamente rinvenuto”.  O il maschio o la morte contiene due raccolte poetiche di Drieu La Rochelle. Quando pubblica la prima delle due, nel 1917, “ha ventiquattro anni, sogna l’Africa, lo spaesamento, la fuga del corpo nell’ambone di avventure fatue, avventate, all’assalto”; perseguirà per tutta la vita il culto del fallimento, perché “l’opera d’arte riuscita è una delusione per chi si accontenta della miserabile verità”. Morirà ovviamente suicida lasciando specifiche indicazioni per il suo funerale, che sia sobrio ma con fiori (e non opere di bene!) e che sulla vettura che lo trasporterà ci siano solo donne.

 

E ancora in “Ho scelto l’oppio” di Banine vi è la storia della conversione della sua autrice che a “cinquant’anni, delusa da amorazzi e intellettuali, si diede all’ingordigia di Dio”. Si converte dall’islam al cattolicesimo e il libro è un diario di questa conversione: “Il suo diario ha una vastità famelica, l’anagramma di un amore che strazia”.

 

Questa collana è un’opera insolita e preziosa lontana da qualsiasi normalizzazione, da qualsiasi appello alla vittimizzazione, pur essendo composta da autori che scrivono preda di convulsioni dolorose ma vitalissime; uno spirito riflesso nella descrizione che Banine fa di un cimitero musulmano sul Bosforo: “Una bellezza immensa, d’una perfezione che, più che piacere, dà sofferenza. Ma sofferenza di una strana qualità: al di là di essa, spunta la gioia”. Tutto è estenuato ma vigoroso. Il gusto della collana è rivolto a testi trascurati come se in quel che si porta alla luce ciò che conta non sia il testo in sé quanto il gesto di scavo archeologico, di volontà deliberata di sfuggire alla naturale uniformazione del mondo illuminando gli angoli divergenti di un passato prossimo che appare remotissimo. Le brevi introduzioni a questi libri sono quasi più indispensabili dei libri stessi, l’intenzione più del risultato, l’insieme del progetto più del contenuto. Anzi, il progetto è il contenuto. Se ne emerge stremati, da queste letture, con un senso di totale inutilità, di avere per piacere nociuto a se stessi come dopo un’orgia di vino e oppiacei. Ma abbiamo bisogno di questi eccessi come dell’aria che respiriamo. Sono personaggi, gli autori, in lite d’amore con il mondo. Scrive Margaret Ruddock: “Ero sugli scogli, ma non riuscivo a gettarmi in mare perché troppe cose amavo in questa vita, ed ero così felice che al posto di morire mi misi a ballare”. Lawrence “morì, va da sé, in un incidente; amava la velocità, famelico del rischio”. Altrimenti, il rischio più letale: soffocare nell’atmosfera corretta ma troppo esatta del nostro sapere reale e necessario. 

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