Case perdute

Riccardo Bravi

La recensione dl libro di Eugenio De Signoribus, Giometti & Antonello, 192 pp., 24 euro

Troppo a lungo sepolta nell’oblio di questi ultimi dodici anni di silenzio compositivo, che hanno fatto seguito al più alto momento di glorificazione avvenuto nel 2008 con la pubblicazione del ponderoso volume Poesie (1976-2007) per la collana “Gli elefanti” della Garzanti, al quale è stato assegnato l’ambito Premio Viareggio, e, in seguito, sempre per Garzanti, con Trinità dell’esodo, la poesia di Eugenio De Signoribus (nato nel ’47 a Cupra Marittima, nel sud delle Marche) ritorna in lizza grazie a questa fine ristampa di Case perdute, edita per Giometti&Antonello di Macerata. Sembra infatti che il 2022 sia stato l’anno che ha deciso di riportare in auge – con tre uscite in un sol colpo – la figura di questo grande poeta marchigiano, grazie alla lungimiranza di chi crede ancora ciecamente nella parola poetica, dandogli spazio e considerazione. Oltre questa – apparsa per la prima volta nell’86 sulla rivista “marka” di Ascoli Piceno –, mi riferisco all’apparizione quasi simultanea di altre due raccolte inedite di non minor intensità e pregnanza, quali L’uscita. Sogno, incubo, doppio sogno (Il Canneto editore) e Un manoscritto domestico (Portatori d’acqua) – al quale Marco Filoni dedicò una magnanima “Recensione d’autore” su un numero del Venerdì di Repubblica dell’ottobre dello scorso anno. Ovviamente Case perdute si denota come la raccolta strutturalmente più completa e riuscita, spartiacque tra le ultime sillogi montaliane e il “tracollo culturale” degli anni Ottanta, periodo storico in cui – come dirà Massimiliano Tortora, uno dei curatori del volume – “si affaccia una nuova generazione di poeti, che fa i conti sia con la tradizione (salvando tutto ciò che c’è da salvare) e sia con il mondo contemporaneo (contaminandosi, aggredendo, distaccandosene)”. A quest’ultima, senza alcun dubbio, Eugenio De Signoribus vi appartiene ampiamente: e non a caso il suo è un linguaggio che fa i conti con la poesia – per lo più alta e sublime – a cui i grandi poeti del primo Novecento ci avevano abituato, aggredendola e contaminandone le fondamenta fino a rendere l’italiano un terreno sul quale sperimentare nuove forme espressive, utilizzate al fine di veicolare un preciso messaggio etico-politico il quale resta ancora tangibile nelle immagini che imperniano la silloge: quelle case perdute in cui è facile intravedere lo sfaldamento di tutta un’epoca, nelle quali però, in fin dei conti, un barlume di resistenza si riesce a scorgere: “Ma nel suo guscio la lingua non s’arrende/ e dosa nel salivario lievito e sale/ e le ferite ricuce immense plaghe…”.  

 

Case perdute
Eugenio De Signoribus
Giometti & Antonello, 192 pp., 24 euro

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