(illustrazione di Giovanni Battistuzzi)

Una fogliata di libri

Giovanni Verga alla prova del “semplice fatto umano”

Edoardo Rialti

Riscoprire lo scrittore siciliano come antidoto all'esperienza personale raccontata come paradigma universale, che definiva "imbrattacarte, lavapiatti, parassiti" i retorici del melodramma facile

Dateci le lacrime delle cose e risparmiateci le lacrime vostre” chiedeva Francesco De Sanctis, santo patrono dei critici letterari. E’ una sfida che torna spesso in mente, in questi anni dominati dall’autofiction, dalla mera riproposizione della propria esperienza personale e del suo valore paradigmatico. Ma la nostra vita non coincide con la nostra biografia, e occorre un grande lavoro per permettere alla seconda di esprimere una valenza universale per mezzo del linguaggio artistico (una delle testimonianze recenti e più riuscite è quella di Alberto Prunetti, con “Amianto”).

 

Ripercorrere le opere di Giovanni Verga consente di osservare quanta fatica, artificio e lima occorra per risultare effettivamente realisti, giacché il verismo per lui non era “un pensiero, ma un modo di esprimere un pensiero”. Nelle lettere ad amici come De Roberto o Capuana definiva i retori delle emozioni facili e melodrammatiche “solo imbrattacarte, lavapiatti, parassiti” e ribadiva la principale difficoltà per un autore, quella di restare nell’acqua della scrittura e lasciarsi faticosamente cambiare, senza cedere a compromessi e cortigianerie: “Tu sai meglio di me che in questa via crucis ove ci siamo messi, sparsa di triboli e di editori, bisogna starci, e andare innanzi col sacco vuoto e i piedi addolorati per contare fra gli ebrei erranti di cotesta fede, e che gli assenti hanno torto, e che la politica e le imprese industriali scopano la via a ogni fin d’anno, senza contare i feriti e tenendo in conto di morti i mancanti”.

 

Eccolo dunque cercare di fissare, per tutta la vita, “il semplice fatto umano”, con una vista doppia che continuamente guizza tra i cafè eleganti di Milano, dove l’elegante meridionale fumava e osservava, e le cave della lontana Sicilia dove i bambini sputano sangue, sempre a contemplare solitudini, la consapevolezza che si largo nel dolore dei poveri e dei ricchi, gocciolando piano come insegnava Eschilo: “Mentre il cane gli abbaiava dietro, e gli diceva col suo abbaiare che era solo in mezzo al paese. Soltanto il mare gli brontolava la solita storia sotto, in mezzo ai Fariglioni, perché il mare non ha paese nemmen lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e muore il sole, anzi ad Aci Trezza ha un modo tutto suo di brontolare, e si riconosce subito al gorgogliare che fa tra quegli scogli nei quali si rompe, e par la voce di un amico. Allora ’Ntoni si fermò in mezzo alla strada a guardare il paese tutto nero, come non gli bastasse il cuore di staccarsene, adesso che sapeva ogni cosa”.

 

Si fondono così le intuizioni di Leopardi, gli sperimentalismi di Pascoli e si anticipa perfino il Kroger di Mann, nell’apparente neutralità corale di una voce popolare nella quale egli innestava centinaia di proverbi: “Le belle sere di estate salivano adagio adagio come la nebbia, il buon odore del fieno in cui si affondavano i gomiti, e il ronzìo malinconico degli insetti della sera, e quelle due note dello zufolo di Jeli, sempre le stesse – iuh! iuh! iuh! – che facevano pensare alle cose lontane”. Eccolo addirittura ammettere di non riuscire a raccontare i ceti sociali a lui più prossimi: “La gentuccia, sapevo farla parlare; ma questa gente del gran mondo, no. Quando essi parlano, mentiscono due volte: se hanno debiti, dicono di aver l’emicrania”. Occorre un lavoro immenso, una segreta dolorosa distanza per sedere a quel cafè e, attraverso il velo del fumo, veder sfilare come fantasmi le proprie esperienze vicine e lontane.

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