Una fogliata di libri

Pietre d'oltremare

Giuseppe Perconte Licatese

Simona Troilo (Laterza, 322 pp., 22 euro

Un secolo fa l’archeologia è stata l’avanguardia e l’ancella del colonialismo italiano. Riunitasi attorno al suo “pioniere” Federico Halbherr, una generazione di studiosi, mossi tanto da un ideale romantico quanto dalla curiosità scientifica, si era votata a far riemergere dalle sabbie delle propaggini dell’Impero ottomano – Creta, il Dodecaneso e la “quarta sponda” libica – le reliquie delle antiche civiltà mediterranee e i resti della grandezza di Roma, che tutte le ricapitolava in sé. Durante l’invasione del 1911-’12, ogni ritrovamento di mosaici, manufatti e resti architettonici in Cirenaica e Tripolitania è celebrato dagli archeologi e dai giornalisti come l’epifania di un passato glorioso che per secoli ha atteso il ritorno dei discendenti della “stirpe latina”. E’ poi il fascismo a portare le imprese archeologiche italiane a un livello superiore di organizzazione istituzionale, ponendo la disciplina al centro del proprio discorso rivoluzionario di resurrezione e continuazione dell’Impero. Negli anni Venti lo sviluppo della missione archeologica italiana si svolge in parallelo alla spietata campagna militare del generale Graziani contro la resistenza senussita: la costruzione dei siti di Cirene, Sabratha e Leptis Magna è l’altra faccia, simbolica, della violenta presa di possesso del territorio. Le rovine vengono delimitate e musealizzate in un processo che esige l’espulsione degli autoctoni, descritti dai colonizzatori come una fauna “annidata” tra i resti di opere monumentali che essi non sono in grado di comprendere. Il recupero e la trasformazione in patrimonio pubblico di queste vestigia è infatti ciò che nel discorso europeo denota la superiorità della civiltà rispetto alla barbarie degli arabi. Il passo successivo alla “pacificazione” dei territori d’oltremare consisteva nel rendere i siti accessibili alle comitive dei turisti europei. Le rovine, grazie alla fotografia e al cinema, diventano sia la scenografia di una grande narrazione imperiale sia l’oggetto di un consumo culturale in senso moderno. Anche la Rodi italiana, restaurata in stile veneziano, diventa ora meta di “un turismo di matrice eterogenea che fruiva dei musei e dei teatri, degli alberghi e dei caffè all’insegna di rituali metropolitani omologati”, come chiosa l’autrice in quello che suona come un aforisma antimoderno. Il fascismo, che voleva in questo mostrare il volto razionalista e rassicurante di paese europeo civilizzatore, avrebbe perso tutto con la guerra del 1940-1943.

 

Simona Troilo
Pietre d’oltremare
Laterza, 322 pp., 22 euro