Sandro Botticelli, "La voragine infernale". Disegni per la Divina Commedia (Biblioteca apostolica vaticana)

E' insensata la letteratura senza amore e dolore

Daniele Mencarelli

L’uomo non è fatto per l’inferno. Ma lo deve conoscere, deve sprofondarci dentro, per aprirsi veramente alla visione celeste della sua anima

L’idea di una letteratura purgata da ogni sofferenza, e di contro da ogni vetta di gioia degna di questo nome, ha circolato e circola con grande frequenza nella letteratura degli ultimi 50, 60 anni. Non solo. Sembra quasi, anzi è, divenuto inelegante offrire narrazioni che conducano il lettore dove l’uomo è più solo e nudo di fronte agli eventi della vita. Un pudore inaccettabile, borghese, ammanta tanti libri e storie che non vanno oltre il grigiore di vite sostanzialmente risolte, al riparo, protette da ogni scossone del destino. Anche nel momento in cui il male attacca, di solito un male esterno, concreto, non produce nulla oltre il male stesso, non germina in quel viaggio di ritorno dentro il proprio io e il mondo che è poi, sostanzialmente, il viaggio più naturale, omerico, dell’umanità e della letteratura.

 

Questo genere di narrazione, grigia, che vive in assenza di dolore e amore, ha innalzato muri contro chi propone, o tenta di farlo, altro genere di scrittura, in continuità con quella tradizione che da Dante a Pasolini prova a condurre la lingua nei luoghi del vivere, lingua come eterno gesto politico, costantemente in divenire. Una lingua che non cerca soltanto la testa del lettore, che non si esaurisce nel reciproco compiacimento autore-lettore rispetto alla propria massa cerebrale o erudizione, ma che ha anche il coraggio di com-muovere di fronte agli eventi della vita, di fronte alla natura drammatica della vita stessa.

 

Si vive, e scrive di conseguenza, in assenza di dialogo sincero con la propria natura. Questa potrebbe essere una prima affermazione da mettere da parte.

 

Luoghi del vivere come arene di scrittura. Da Dante a Pasolini. Luoghi del vivere e del soffrire. Perché è altrettanto innegabile che l’umano compie la sua torsione più imprevedibile e gigantesca nel momento della sofferenza. Gesti apparentemente contro natura, che svelano in realtà il sublime, ovvero il limite estremo della portata dell’umano stesso. Basta volgere lo sguardo al secolo che ci siamo lasciati alle spalle, e che non smette di rantolare nelle nostre vite, per confutare questo dato. La grandezza delle arti del Novecento viaggia di pari passo alle sue brutture, come una fioritura imprevista e indomabile nata nel medesimo luogo dove l’umanità veniva messa in pericolo.

 

Ma, a guardare bene, questa naturale capacità dell’uomo di produrre bellezza dalla sofferenza non può dirsi certo riferibile solo al Novecento. Questo tratto viaggia di pari passo a tutta la letteratura che ha fatto storia. E non si può non ritornare a Dante, all’esilio, al tema della libertà violata o addirittura negata. Una costrizione che da biografica diventa artistica, formale, ma che muta in questo passaggio totalmente di segno. Si polarizza traendo dal male supremo la forma perfetta. Il canto, la terzina, l’endecasillabo. La Commedia.

 

Flannery O’Connor, che torna in queste settimane nelle disponibilità dei lettori italiani grazie a minimum fax che ha pensato bene di riproporre “Il Cielo è dei violenti”, il suo capolavoro, ha scritto uno dei saggi sulla scrittura più intensi e lucidi che siano mai stati messi nero su bianco. “Nel territorio del diavolo”. Il titolo non lascia scampo, né confusione possibile. Chi scrive non può negare al suo sguardo la visione dell’inferno, non può far finta che non esista, perché è dall’inferno, dalla ribellione animalesca, quindi totalmente artistica, dell’uomo al dolore che si sprigiona tutto il suo potenziale.

 

Perché l’uomo non è fatto per l’inferno. Ma lo deve conoscere, deve sprofondarci dentro, per aprirsi veramente alla visione celeste della sua anima. In queste ultime settimane è uscito un altro libro che pone al centro della questione il rapporto tra arte e sofferenza, tra umano e la sua negazione. L’ha scritto Nicola Bultrini, un poeta che dimostra in questa sua prova anche il passo del saggista innamorato. Il libro s’intitola “Con Dante in esilio, la poesia e l’arte nei luoghi della prigionia”, delle Edizioni Ares. Bultrini compone un libro che procede per toponimi, il nome si salda al luogo, il luogo diventa antonomasia. Il lager. Il campo di concentramento. La sofferenza maiuscola della storia.

 

Bultrini parte da elementi concreti, vedi l’idea concentrazionaria che diede vita per quasi due secoli ai luoghi di reclusione che nascevano per i prigionieri di guerra, per poi offrire in rassegna personalità note e meno note legate alla letteratura e al tema della prigionia. Da Dante a Gadda, da Reina a Guareschi. Ma è altrove che il testo, almeno per il sottoscritto, si è fatto sorprendente, e indimenticabile. E’ proprio all’inizio del libro, nel racconto introduttivo di Bultrini, in visita nei luoghi dove fu imprigionato il nonno per ben due anni. Lo Stalag VII A. A nordest di Monaco. Dove sorgeva uno dei campi più grandi di tutta la Germania, una città di 80 mila prigionieri-abitanti, oggi si trova una distesa infinita di villette a schiera, con il giardinetto curato, villette sorte sulle stesse direttrici del campo. Come dire, nulla graffia la superficie del mondo. A parte l’arte, il segno innamorato.