“Un seme di umanità. Note di letteratura”, di Piergiorgio Bellocchio, stampato a gennaio da Quodlibet, è un bilancio del lavoro di mezzo secolo

Il sospetto verso chi crede di poter razionalizzare la vita

Matteo Marchesini

I ritratti dedicati da Piergiorgio Bellocchio a una ventina di grandi narratori e intellettuali moderni

Quando un professionista della filosofia italiana interviene sui fatti del giorno, dà quasi sempre risultati più scarsi di un editorialista mediocre. In genere, o tenta di sollevare qualunque frammento di cronaca al proprio cielo teorico, rivelandone l’inservibile monotonia da idea fissa, o viceversa abbandona il cielo teorico cedendo a un buon senso sbiadito, e così confessando ugualmente l’inutilità dei suoi studi. Non riesce a stabilire le giuste proporzioni tra teoria ed esistenza quotidiana: operazione possibile solo se si ha una certa dose d’immaginazione morale o sociologica, che viene dall’attitudine a immedesimarsi con gli attori in campo.

 

Questa attitudine, almeno in parte, si può sviluppare con l’aiuto di romanzi e testimonianze di vita. Ma sono libri che i filosofi snobbano o strumentalizzano, leggendovi sé stessi, così come i letterati afferrano al volo qualche sentenza filosofica illudendosi di dare prestigio ai loro sforzi esegetici. Pensavo a questo quadro deprimente, per contrasto, mentre sfogliavo con soddisfazione i ritratti dedicati da Piergiorgio Bellocchio a una ventina di grandi narratori e intellettuali moderni. “Un seme di umanità. Note di letteratura”, stampato a gennaio da Quodlibet, è un bilancio del lavoro di mezzo secolo, che mostra sia la varietà della cultura dell’autore (si va da Hašek a Kubrick, da Belinskij a Pasolini) sia la costanza di alcune passioni (Orwell, Céline, Böll). Malgrado pubblichi di rado, al contrario dei filosofi di cui sopra, Bellocchio è un eccezionale critico del costume: sa cogliere con prontezza krausiana il diavolo nel dettaglio, svelarne la natura di sintomo, e collegarlo al contesto mantenendo un perfetto controllo su tutti i piani.

 

Al netto del talento, questa dote ha senz’altro a che fare con il suo approccio alla letteratura. A differenza del letterato medio, Bellocchio non scinde artificiosamente le finzioni dalla realtà in cui sono immerse. Non ha mai smesso di nutrirsi della tradizione romanzesca, ma col passare degli anni si è interessato sempre più ai saggi, alle autobiografie e ai reportage. Non a caso il suo tono si fa più intimo davanti alle memorie di Herzen e agli scritti ibridi di Orwell, due autori che si gettano nell’azione e insieme osservano con rigore ciò che all’azione sfugge, evitando di mistificare un’attività con l’altra e pagando di persona. Nei suoi ritratti Bellocchio intreccia nitidamente riassunto e commento, è al tempo stesso didattico e originale. In questo senso ha come modello Edmund Wilson, ottimo insegnante, critico acuto, ma anche “giornalista di razza”. All’empirismo wilsoniano aggiunge poi un’elegante applicazione degli schemi di Lukács, corretti però da un salutare istinto anarchico. Bellocchio sospetta infatti di tutti coloro che credono di poter razionalizzare la vita. La sua stima va alle persone e ai personaggi che non hanno abbastanza volontà per essere efficienti, ossia integrati, e che dunque un po’ gli somigliano. La raccolta si apre su Casanova, di cui esalta appunto quell’incapacità di “applicarsi esclusivamente a un progetto” che è il rovescio della sua capacità di cavarsela negli imprevisti. Il veneziano ha un lato servile che non accetta mai fino in fondo.

 

Ma spesso l’istanza anarchica si ritrova in tipi che sono tecnicamente dei servi: ad esempio nell’enigmatico Švejk, che la nasconde sotto la passività. Viene invece apertamente in luce negli emarginati della “leggera” descritti da Danilo Montaldi, che come Isherwood e Céline la incarna anche nella sua esistenza. A questo anticonformismo è legata la lode della realtà più elementare e corporea, e a livello sociale l’apologia delle categorie subordinate, dalle donne ai ceti popolari, il cui ruolo è costantemente sottovalutato, mentre costantemente si sopravvaluta una classe intellettuale che ha dato al progresso civile un contributo molto minore. Qui sta l’“umanità” a favore della quale testimonia Bellocchio nelle sue poche apparizioni. Perché nell’età matura, ormai privo di una comunità politica e di un pubblico riconoscibile, il piacentino ha scelto una quasi totale astensione dal dibattito pubblico. Il meglio che si può fare, sembra dirci, è resistere individualmente nell’etica del “come se”: quella che ammira nel contegno di Flaubert, deciso a “praticare la virtù senza crederci” e perciò indisponibile alle autopromozioni giornalistiche. In Bellocchio la spietatezza analitica convive con il bisogno di prendere alla lettera i valori che una borghesia ormai tramontata ha usato per secoli come un paravento. Non stonerebbe, in fondo alla sua galleria di moderni, un ritratto di questo satirico con pathos.

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