Bambini e rivoluzione

Matteo Marchesini

Così usiamo i più piccoli come proiezioni e mezzi per opprimerci a vicenda

L’ultimo libro di Todorov, “L’arte nella tempesta”, descrive le sorti toccate tra il 1917 e il ’41 ad alcuni tra i più straordinari poeti, narratori, registi, musicisti e pittori sovietici. La tragica euforia della cultura rivoluzionaria, convinta che l’avanguardia artistica potesse coincidere con quella politica, cedette presto ai massacri e ai suicidi, alle confessioni estorte e alle lingue esopiche. A ratificare questa critica delle armi fu naturalmente Stalin, in cui una sinistra metafora estetica indicava l’artista sommo destinato a ricavare la forma dalla materia umana, con mistificazione speculare a quella degli artisti che paragonavano le loro opere ad azioni di guerra. Nella sintesi di Todorov incontriamo Majakovskij, che sembra bruciarsi al fuoco bolscevico ma in realtà è un poeta d’amore; Mandel’stam, che cantando amori intimi e cosmici diventa suo malgrado un poeta civile; Pasternak, che oscilla tra il desiderio di fondersi con lo spirito del tempo e la difesa di un’arte che cresce senza forzature, come un frutto; Babel’, nei cui racconti l’orrore e la fatalità della violenza sono indistinguibili; la Cvetaeva, creatura impolitica che la Storia tortura per decenni coi suoi rivolgimenti; il popolano Gor’kij, che spera in un socialismo illuminista; l’aristocratico Blok, che nel popolo corteggia un’esotica violenza “naturale”; Zamjatin, col suo meraviglioso rigore mantenuto in patria e all’estero; Pil’njak e Mejerchol’d, col loro percorso tortuoso di ritrattazioni; Sostakovic, protetto dietro una maschera che a poco a poco si salda al volto; e soprattutto l’ingenuo Malevic, disposto infine ad ammettere che sulle barricate non si va coi pennelli ma con le pistole.

 

Certo la retorica dell’azione, futurista e costruttivista, ha prodotto risultati indimenticabili in Majakovskij e in Ejzenstejn: ma se il primo si suicidò, il secondo fu vessato con sadica lentezza dalla dittatura. A metà anni Trenta, quando entrò in vigore il realismo socialista, la censura colpì il suo “Prato di Bezin” ispirato a Pavlik Morozov. Secondo il regime, il tredicenne Pavlik avrebbe fatto deportare il padre che sabotava l’attività del kolchoz e sarebbe stato ucciso dai famigliari; secondo gli storici, questo mito atroce nasconde una vicenda ancora più triste. Nel 1935, l’anno in cui i censori accusavano ĖEjzenstejn di formalismo, è ambientato “Lo spione”, uno dei quadri pubblicati da Brecht in “Terrore e miseria del Terzo Reich”. Salotto di Colonia, dopopranzo piovoso. Madre e padre battibeccano sull’attualità nazista. A un tratto si accorgono che il figlio è uscito, e subito temono che sia andato a denunciarli. Provano a ricordare se hanno pronunciato parole compromettenti, chiosandole con ridicola cavillosità. Al sipario il ragazzo torna con un cartoccio di cioccolata, ma i genitori lo guardano comunque sospettosi: bisogna credergli? “Ogni scolaro una spia. Non ha nulla, / in cielo o in terra, da imparare. / Ma chi ha qualcuno da denunciare?”, recitano i versetti d’apertura.

  

Nulla da imparare: ecco come la dialettica dell’illuminismo ribalta il mito romantico dell’onnisciente innocenza infantile nella purezza del boia. E’ la parabola che di lì a poco traccerà Sartre in “Infanzia d’un capo”, poi riscritto con l’occhio a est dal Kundera di “La vita è altrove”. Ma se il mio pensiero ha seguito il filo Morozov-Brecht è perché poche sere prima, a una cena, si parlava del fatto che spesso trasformiamo i bambini in un’arma, in un giudizio di Dio su di noi e sui nostri avversari. Di fianco avevo due insegnanti (lo è anche il padre dello “Spione”): una ragazza che sa tradurre la sua energia affettiva in sottilissima dialettica, e un amico che tornisce aforismi sorprendenti. Lei parlava di come combatte invano il bisogno di essere amata dagli alunni e il timore di esserne ricattata per una frase fuori luogo. Lui notava che i prof. si giudicano l’un l’altro usando il metro della classe: il suo scherno verso un collega li spinge a bullizzarlo. Il problema è che nel generale “Kind mit uns” i minori diventano degli dèi “per noi”.

 

Non li onoriamo per se stessi: li usiamo come proiezioni e mezzi per opprimerci a vicenda. Mentre riflettevo su tutto questo mi è venuto in mente che esiste una figura speculare a quella sovietica e brechtiana, una figura pure gettata oltre l’ethos famigliare e lasciata sola davanti al mondo. La sua condizione, tradotta in termini quotidiani, somiglia a quella dei figli dei migranti, che della società in cui vivono sanno molto più dei genitori, sperimentando l’obbligo straziante di proteggere chi dovrebbe proteggerli. Questa figura è Gesù tra i dottori, e si trova nell’unico episodio dei Vangeli che registra il tempo vuoto tra la nascita e la predicazione – l’unico episodio in cui il Redentore sfugge alla parabola sacra ed entra nella durata di una vita incapace di contenerlo. Troppo inerme e sapiente, il Cristo dodicenne ha rappresentato nei millenni la contraddizione e la dismisura di ogni buona novella e di ogni nuova venuta al mondo, cioè di ogni modernità infante che vuole trasformare radicalmente l’uomo e la storia.

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