High & Low
Con l'arte alla portata di tutti, tutti si sentono artisti
La modernità ha portato all’incontro tra cultura alta e bassa, sgonfiando la bolla speculativa su cui è costruita la storia artistica contemporanea. Ma un’arte senza autonomia può essere ancora considerata tale?
Ventun giugno 1990, data da tenere a mente. E’ il giorno in cui a New York al Moma apre i battenti una straordinaria mostra dal titolo illuminante: High & Low, Modern Art & Popular Culture. Sono i due critici Kirk Varnedoe ed Adam Gopnik ad aver messo in scena il non facile incontro che tenta di scardinare il radicato sentimento antagonista tra le due presunte sfere di cultura da sempre ritenute inconciliabili.
Non si trattava soltanto di ammettere come e quanto tutta la cultura delle Avanguardie Storiche si fosse nutrita di saccheggi del visivo prelevato dal mondo reale ad opera in particolare di Surrealismo e Dada, sino all’esplosione e al trionfo totale dell’immagine della merce operato più tardi dal mondo Pop.
In maniera più o meno cosciente – si è trattato – credo – anche di mettere in evidenza come proprio le pratiche basse sapessero contenere un elogio del saper fare, persino artigianale, riaffermare la rinnovata valorizzazione della manualità, dell’umiltà e del mestiere in opposizione al fatale azzeramento del tutto è arte prodotto dal ready made e dai suoi innumerevoli epigoni. Quello era stato il credo di chi considerava la maestria esecutiva come scomodo impedimento ai voli liberi della creatività totale. Dogmi messi in pratica da assunti teorici e da dittatoriali manifesti.
La data da tenere a mente è il 21 giugno 1990. Al Moma di New York apre la mostra “High & Low, Modern Art & Popular Culture”
L’incontro tra cultura alta e cultura bassa, tra istituzioni d’élite e quotidianità è un aspetto delle avanguardie storiche la cui importanza fu messa in evidenza, con un’analisi particolarmente attenta, da Walter Benjamin. Il modernismo completava la sua parabola distruggendo l’idolo che aveva edificato.
Benjamin esitò di fronte a quella che definì la perdita dell’aura da parte dell’arte, cioè di una dimensione di tipo sacrale dell’opera d’arte nella sua unicità e lontananza, che la poneva al di sopra della vita reale. Negli scritti giovanili, come nei saggi su Baudelaire e Leskov, vedeva il fenomeno piuttosto come un estremo sviluppo dello stato di alienazione sociale. Nel saggio Piccola storia della fotografia, del 1931, riconosceva ancora un aspetto negativo, dato dal permanere dell’elemento della commercializzazione.
Nel saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, si soffermava invece sul carattere progressivo delle nuove modalità di fruizione di un’arte che non è più separata dall’esperienza delle masse, sia per la sua riproducibilità, sia perché le nuove espressioni artistiche facevano largamente uso dei vari aspetti dell’esperienza stessa.
“L’unicità dell’opera d’arte – affermava – si identifica con la sua integrazione nel contesto della tradizione. E’ vero che questa tradizione è a sua volta qualcosa di vivente, qualcosa di straordinariamente mutevole. Un’antica statua di Venere, per esempio presso i Greci, che la rendevano oggetto di culto, stava in un contesto tradizionale completamente diverso da quello in cui la ponevano i monaci medioevali, che vedevano in essa un idolo maledetto. Ma ciò che si faceva incontro sia ai primi sia ai secondi era la sua unicità, in altre parole la sua aura”. E poi precisava: “La riproducibilità tecnica dell’opera d’arte modifica il rapporto delle masse con l’arte. Da un rapporto estremamente retrivo, per esempio nei confronti di un Picasso, si rovescia in un rapporto estremamente progressivo, per esempio nei confronti di un Chaplin”.
E’ con il movimento Dada che l’arte della quotidianità acquistava una sua consapevolezza rivoluzionaria, liberandosi anche dal condizionamento del mercato. Osservava: “Ogni formulazione nuova, rivoluzionaria, di determinare esigenze è destinata a colpire al di là del suo bersaglio. I dadaisti davano all’utilizzabilità mercantile un peso molto minore che non alla loro inutilizzabilità nel senso di oggetti di un rapimento contemplativo. Le loro poesie sono insalate di parole, contengono locuzioni oscene e tutti i possibili e immaginabili cascami del linguaggio. Non altrimenti i loro dipinti, dentro i quali essi montavano bottoni o biglietti ferroviari. Ciò che essi ottengono con questi mezzi è uno spietato annientamento dell’aura dei loro prodotti”.
Secondo Walter Benjamin la perdita dell’aura da parte dell’arte era l’estremo sviluppo dello stato di alienazione sociale
Il progetto di un’arte diffusa, efficacemente sintetizzato da Benjamin con il concetto di perdita dell’aura è stato alla base della rivoluzione modernista, con motivazioni teoriche diverse a seconda delle ideologie che hanno caratterizzato i vari movimenti d’avanguardia. La carica ideologica ha però fortemente condizionato questo processo di riappropriazione dell’arte da parte delle masse, nel senso che la sua ragion d’essere è stata identificata all’interno delle categorie storicistiche di progresso e superamento.
In forma diversa l’arte diffusa aveva trovato espressione nella prospettiva postmoderna, che ha tradotto in libero gioco il compenetrarsi di arte e vita nelle esperienze più svariate, senza alcun limite. Il dogmatismo storicistico si è capovolto in un possibilismo senza regole che ha rotto ogni confine anche tra i generi, fondendo parola, immagine, suono.
L’estrema libertà si è poi avuta con il gioco della citazione. Come in un caleidoscopio trovavano posto frammenti di stili del passato, che si intersecavano, si sovrapponevano, si contaminavano.
L’esito della postmodernità era quello appunto di un relativismo senza punti di riferimento, di un orizzonte troppo espanso, là dove quello del modernismo appariva troppo ristretto. Il postmodernismo conteneva però una sua intrinseca contraddittorietà. A quale titolo si poneva dopo la storia? Come si può pensare che ci possa essere un futuro senza storicità, senza un divenire che implichi continue trasformazioni, falsificazioni, nel senso popperiano, rotture di paradigmi ivi compresa l’assenza, più ostentata che reale, di un paradigma di riferimento, come del resto è lo stesso citazionismo?
Con il movimento Dada l’arte della quotidianità acquista consapevolezza rivoluzionaria, si libera dai condizionamenti del mercato
Per non incorrere in una forma di millenarismo ingenuo, nel catastrofismo apocalittico, il postmoderno non poteva pretendere di rappresentare l’ultima parola, quella pronunciata al di fuori della catena storicistica. Doveva rassegnarsi a riconoscersi fase di un processo, il cui fine ultimo spettava alla filosofia e alla teologia indagare, non certo all’arte.
Arte diffusa, quindi, ma non dogmatica, né priva di progettualità, di formatività e specificità del gesto che la istituisce. Un’arte, inoltre, dove la compenetrazione con la vita rappresentava soltanto l’intenzione dell’artista, spesso non compresa dalle masse.
Come osservava John Walker, in molti casi è caduto quel muro di incomprensione che tormentava Benjamin, circa il rapporto tra masse e avanguardie. “Le interazioni tra i due campi sono oggi evidenti, confermando anche l’opinione di Benjamin secondo cui le masse rifiutano le sperimentazioni artistiche e le giudicano incomprensibili quando sono presentate come arte d’avanguardia, mentre le accettano e apprezzano quando sono inserite all’interno della cultura di massa. L’incredibile inventiva tecnica e formale dei video-clip, che si riallacciano alle innovazioni del surrealismo, del cinema astratto e sperimentale della prima metà del secolo, è stata apprezzata da milioni di persone in tutto il mondo: il loro carattere non naturalistico in questo caso non si è rivelato un ostacolo”.
Una logica che vorrebbe essersi lasciata alle spalle i problemi, per giocare in modo ironico con una creatività presunta onnipotente nelle invenzioni e nei rimandi al passato, e di fatto esposta all’angoscia del non esserci, a causa della perdita di identità dell’arte. Scrive infatti Antoine Compagnon: “Come non arrivare, avendo rinunciato allo storicismo genetico, all’appiattimento dei valori e a esclamare a nostra volta: Tutto va bene? Se il valore non è più identificato con il nuovo, si pone il problema della legittimità della mia propria ricostruzione che non è esente da scelte (…) Se l’opera vale in quanto tale e non per la sua collocazione nella storia, come valutare una serie di opere discontinue? Al di là dell’autoriferimento o dell’autosufficienza dell’arte, il criterio è l’ironia”.
L’esito della postmodernità era un relativismo senza punti di riferimento, di un orizzonte troppo espanso rispetto a quello della modernità
La categoria dell’ironia ha una forte valenza filosofica ed estetica in particolare. Risale a Socrate, nell’indicare una falsa umiltà per disorientare l’avversario.
Il fine giustifica i mezzi, e per Socrate il fine è quello di aiutare con la maieutica l’interlocutore confuso a ritrovare la verità. L’ironia come categoria estetica è utilizzata dai romantici.
Così Vattimo applicava il concetto di ironia all’opera d’arte postmoderna: “Non si attende più che l’arte venga resa inattuale e soppressa in una futura società rivoluzionaria; si tenta invece comunque, subito l’esperienza di un’arte come fatto estetico integrale. Di conseguenza, lo status dell’opera diventa costitutivamente ambiguo: l’opera non mira a una riuscita che le dia il diritto di collocarsi entro un determinato ambito di valori (il museo immaginario degli oggetti forniti di qualità estetica); la sua riuscita consiste anzi, fondamentalmente, nel rendere problematico questo ambito, oltrepassandone, almeno momentaneamente i confini. In questa prospettiva, uno dei criteri di valutazione dell’opera d’arte sembra essere, in primissimo luogo, la capacità dell’opera di mettere in discussione il proprio statuto: sia a livello diretto, e spesso, allora, alquanto rozzo; sia in modo indiretto, per esempio come ironizzazione dei generi letterari, come riscrittura, come poetica della citazione, come uso della fotografia intesa non in quanto mezzo per la realizzazione di effetti formali, ma nel suo puro e semplice significato di duplicazione. In tutti questi fenomeni presenti a diversi titoli nell’esperienza artistica contemporanea, non si tratta solo dell’autoriferimento che, in molte estetiche, sembra costitutivo dell’arte; bensì, a mio avviso, di fatti specificamente legati alla morte dell’arte nel senso di una esplosione dell’estetico che si attua anche in queste forme di autoironizzazione della stessa operazione artistica”.
John Walker vedeva i tratti caratteristici della interconnessione tra arte e vita del postmoderno nel fenomeno del cross-over, definito come “contaminazione tra diverse arti, mezzi espressivi, generi, stili e sottoculture”. In particolare, egli identificava nella musica pop l’ambito nel quale multimedialità e compenetrazione di generi raggiungono i livelli più elevati di integrazione. “La musica pop – osserva – non è soltanto musica, è anche uno spettacolo rappresentato su un palcoscenico, effetti luce, costumi, trucco, gestualità, grafica, fotografia, cinema, video…”.
Le masse rifiutano le sperimentazioni se sono presentate come arte, le accettano quando sono inserite nella cultura di massa
L’uso e l’abuso di elementi artistici figurativi, ad esempio, al di fuori dell’ambito tradizionalmente proprio, crea non pochi problemi. Soprattutto poi se si considera l’appropriazione di essi effettuata da parte dell’industria sul piano commerciale e pubblicitario. Un oggetto artistico, secondo Walker, non perde la sua natura se viene utilizzato per scopi che non siano di pura fruizione estetica, in base a una curiosa riflessione di teoria economica. “E’ infatti proprio l’estetica di un prodotto – afferma – il suo valore d’uso, ciò che lo rende attraente per il consumatore, gli fornisce cioè il suo valore di scambio. La questione cruciale diventa quindi in che modo il valore artistico serva, coesista, venga corrotto, resista o si opponga alle richieste del mercato”.
Commercializzazione e contaminazione di generi sono al centro del dibattito teorico. “E’ infatti uno svilimento dell’arte per alcuni, ma anche un risultato positivo in termini di accessibilità dell’oggetto artistico per altri. Quali che siano le opinioni a proposito – osservava Walker – è essenziale considerare quali cambiamenti di finalità artistiche, di significato e di impatto sociale entrino in gioco quando un gruppo rock o un disegnatore di copertine si appropriano di un’immagine, uno stile o un concetto appartenente alle arti figurative”.
La copertina dell’album di Blue Rondo à la Turk “Chewing the Fat”
Il problema critico è se l’arte in quanto arte possa essere sottoposta a un giudizio etico o di funzionalità utilitaristica. Un’opera può essere artistica e non essere né etica, né utile, così come può essere etica ed utile, ma non artistica? Se la risposta è sì, corre allora l’obbligo di definire la natura e le condizioni dello specifico dell’arte.
Dagli anni Ottanta parte tutto un fiorire di iniziative che promuovono le interazioni tra le diverse arti. Si assisteva anche alla nascita di numerose riviste specializzate in questo tipo di ricerca, da The face, a Blitz, da Art & Text, a Monitor. La contaminazione è generalizzata. Persino l’arredamento delle discoteche viene curato da artisti di grido.
Con la svolta Fringe, ben rappresentata dalla Biennale del 2013, cambia “il paradigma di ciò che è stato finora considerato arte”
Al Palladium di New York, frequentato da Julian Schnabel e Andy Warhol, i graffiti dei murales sono opera di Keith Haring, Kenny Scharf e dell’italiano Francesco Clemente.
Il citazionismo postmoderno veniva considerato da Walker una vera forma di saccheggiamento del passato, più pirateria che eclettismo stilistico. Inoltre, la sapienza compositiva che riconosceva alla nuova versione della formatività appare ben lontana da un semplice gioco, questo, anche se non giungeva ad attribuire al postmodernismo un’intenzionalità forte, osservava, da un lato, che il valore trasgressivo dell’arte moderna è ormai praticamente svanito, dall’altro, affermava che la cultura della riproduzione ha le motivazioni più diverse.
Motivazioni di ordine pragmatico, ma anche di ricerca creativa, sempre per quella questione del valore d’uso, che è un fatto commerciale, ma che si inscrive nell’estetico.
I casi di copertine di dischi sono innumerevoli. Nel 1981, Chris Sullivan rivisita I tre musicanti di Picasso per il disco dei Blue Rondo Me and Mister Sanchez. Nel 1983 Rocking Russian utilizza il toro di Guernica per Fierce Heart di Jim Capaldi. In un collage per Endlessly di John Foxx, nel 1983, viene utilizzato il particolare di una testa di angelo tratto dalla Vergine delle rocce di Leonardo.
Ad esempio, nel 1984 i Frankie Goes to Hollywood utilizzano l’Assunzione del Tiziano per il loro The power of love. Per Rum, Sodomy and the Lash dei Pogues, nel 1985, Peter Mennin, sovrappone i volti dei componenti del gruppo alle vittime della Zattera della Medusa, dipinto del primo Ottocento di Théodore Géricault.
Come non arrivare, avendo rinunciato allo storicismo genetico, all’appiattimento dei valori e a esclamare: tutto va bene?
La pirateria era comunque consapevole, critica, scientifica, tutt’altro che casuale e superficiale, e stava a dimostrare come alla base ci sia non un progetto totalizzante, ma uno sperimentalismo che si muoveva secondo coordinate abbastanza chiaramente definite.
“Non ci si deve ovviamente immaginare le arti figurative – commenta Walker – come il regno della purezza e dell’innocenza, violentate dal perfido mondo degli affari. La storia del modernismo abbonda di esempi di artisti che hanno sviluppato nuovi stili assimilando il lavoro di scultori tribali, di bambini, di folli, di artigiani di paese e così via. Inoltre gli artisti sono sempre stati influenzati dai maestri del passato e dai loro contemporanei (…). Ciò che va contestato non è quindi il fatto che si verifichino influenze o appropriazioni, ma le modalità con cui queste avvengono. Gli artisti innovatori sono coloro i quali rielaborano il materiale del passato trasformandolo in qualcosa di nuovo, o quelli che, come John Heartfield, impiegano immagini tratte dai mass media con un preciso intento critico e politico. Sulla pirateria di immagini il critico non può perciò limitarsi a formulare generiche condanne, ma deve esaminare ogni caso secondo i suoi meriti”.
Un fenomeno caratteristico di integrazione dei generi era quello degli spettacoli, specialmente quelli underground, dove le scenografie facevano ampio riferimento al matrimonio delle arti figurative. Un artista particolarmente attento a cogliere le nuove opportunità creative come Andy Warhol iniziò ben presto l’esplorazione a tutto campo, cercando di espandere senza limiti precostituiti forme di arte e mezzi espressivi. Già nel ’66 allestì lo spettacolo multimediale Exploding Plastic Inevitable, coinvolgendo il gruppo dei Velvet Underground, nel quale venivano proiettati film e contemporaneamente diapositive in un gioco di luci composito. L’evento Epi era poi completato da danze sadomasochistiche. Si compiva così la saga di multimedialità e cross-over che aveva avuto anticipazioni profetiche come gli happening di Klein che alla fine degli anni Cinquanta conduceva i suoi esperimenti con le Pinceaux vivants, le modelle cosparse di colore che si rotolavano sulle tele con tanto di accompagnamento musicale. Negli anni successivi arriva la consacrazione a livello mondiale con il movimento di Fluxus, sorto dai concerti sperimentali di George Maciunas nel ’61 a New York e nel ’62 a Wiesbaden.
Oggi ampiamente consumato lo sposalizio di High & Low, nodo che si è lentamente e con qualche fatica sciolto, si vola rapidi oltre le macerie del cross-over, cancellate le barriere tra quelli che Mario Perniola aveva definito gli ambiti dell’OutsiderArt e dell’InsiderArt. Con la cosiddetta svolta Fringe, ben rappresentata dall’idea enciclopedica della Biennale del 2013 di Massimiliano Gioni che, sempre secondo Perniola, “destabilizza il mondo dell’arte contemporanea… perché il suo esito reale è il cambiamento del paradigma di ciò che è stato finora considerato arte”.
Esempi di citazionismo postmoderno sono molte copertine di dischi degli anni 80. Dai Blue Rondo a Frankie Goes To Hollywood
Catalogazione di oggetti, opere, non necessariamente prodotte con i crismi del far arte. Artisti e critici non han più da fare solo col mondo dell’arte prevedendo la stessa scomparsa dei ruoli degli artisti e quindi dell’arte stessa.
La logica estensione dell’idea che tutto possa – anzi sia – seguendo Pernicola, arte, “non importa se naturale o artificiale, organica o inorganica, reale o virtuale, materiale o spirituale, astratta o concreta, trovata o costruita, fatta o anche soltanto pensata…”, porta anche l’idea radicale che tutti allora possano essere e siano di fatto artisti.
Nel mondo contemporaneo tradizionalmente, ricorda Perniola, “l’economia della rinomanza passa attraverso i critici, le riviste specializzate, i mercanti, le gallerie, gli editori, i collezionisti, le fiere, le aste, i musei, i professori…”. Si crea così e si coltiva quella sfera di un’arte per specialisti che però ora non potrà più essere tenuta separata da un’arte dilettantesca ma di eguale valore culturale, arte improvvisata, non colta, un’arte però al riparo dal famigerato mercato e dall’assioma del ciò che costa vale, un’arte che non avrà da fare con le eccezioni critiche più o meno remunerate. Cultura che si era proposta come marginale, dai confini dilatati ben oltre quell’arte pensata e definita come low-art, quell’arte bassa parente povero della cultura d’élite.
Ecco allora che “l’arte ha perduto la sua autonomia, si sgonfia la bolla speculativa su cui è costruita la storia dell’arte contemporanea insieme all’aura di solennità che l’ha circondata”. Laurent Danchin parla già di arte post contemporanea.
Se i confini allora si sono tanto dilatati ben oltre il dibattito scontato di High & Low Culture e la sfera dell’arte si è davvero tanto espansa da comprendere tutto allora questo non può non significare che la faccia illuminata di quel tutto nasconde anche quella problematica, persa nella penombra, quella del nulla.
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