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Terrazzo

Espatriate ma con un certo stile: l'estetica straniante di "Expats"

Gaia Montanaro

Il design della serie con Nicole Kidman protagonista è curato ma spersonalizzante, fatto di ambienti all’apparenza caldi ma in realtà asettici. Colori neutri, spazi lineari e qualche lampada più stravagante completano gli interni di quello che pare un luogo-non luogo 

Drammoni nella Hong Kong dell’upper class. Sintesi impietosa di “Expats”, serie disponibile su Amazon Prime Video con protagonista Nicole Kidman (Margareth) e che racconta di un gruppo di donne e amiche che vivono da espatriate nella megalopoli orientale. C’è la sparizione di un bambino, lo spaccato di chi vive in un luogo in cui si sente sempre straniero, il lusso sfrenato e gli enormi appartamenti con annesso personale di servizio.

L’estetica di “Expats” racconta insieme di uno straniamento e della coesistenza di molteplici contraddizioni. Viene infatti messa in scena una Hong Kong alto borghese, fatta di grattacieli, enormi vetrate e appartamenti spaziosi accanto a una città fatta di case minuscole e vicinissime una all’altra dove la gente si agita come in un alveare. Punto di riferimento per il set design è stata l’area di Victoria Peak, uno dei quartieri più elitari della città, che ha fornito le suggestioni visive per la serie – soprattutto gli esterni – senza però diventarne una location effettiva. La dicotomia estetica della serie si vede soprattutto nella definizione degli spazi interni: colori neutri sui toni del crema, spazi lineari, qualche lampada più stravagante, pavimenti in legno e cucine separate. Qualche tocco di design japandi (giapponese più scandinavo) – soprattutto nelle sedute – e qualche quadro generico alle pareti. Un design curato ma decisamente spersonalizzante, fatto di ambienti all’apparenza caldi ma in realtà asettici e generici.


Nessuna foto di famiglia, nessun disegno dei figli. Involucri ben congegnati ma che raccontano di un luogo-non luogo. Di un ambiente in cui ci si è trovati a vivere senza però farlo diventare una casa, senza fare un reale investimento emotivo. La Kidman, algida e plastificata comme d’habitude, sfoga il suo dolore e la rabbia repressa lustrando i pavimenti di un piccolo appartamento semi vuoto in una zona decisamente meno borghese di quella in cui abita. Trova in uno spazio bianco e da tirare a lucido un motivo di sfogo, in un’estetica ipercontrollata che per questo ha in sé una potenziale violenza inespressa. Tutta un’altra storia per chi vive nella “città bassa”, melting pot di estetica, odori ed elementi cromatici. Niente ferro e vetro, niente tendaggi con disegni a ventaglietti stilizzati, niente tocchi dorati o lampadari importanti. Le case assomigliano più a quelle già intraviste in “Parasite”.

Luoghi piccolissimi, cucine anguste dove la gente mangia rannicchiata sul piano cottura dove ci sono i fornelli poiché non c’è spazio neppure per uno sgabello, mattonelle quadrate e lucide nelle cui fughe si annidano chissà quali microrganismi. In “Expats” vive anche il racconto delle divisioni sociali, delle gerarchie. Ad esempio, la domestica della famiglia di Margareth – Essie – vive per una parte del tempo in casa con loro e le viene destinata una stanza minuscola simil cella carceraria (nonostante la Kidman continui a ripetere che la donna è parte della famiglia, pur ricevendo ben altro trattamento). Figli e figliastri anche nell’interior design.
 

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