Julie Mehretu, Nella moltitudine XIII di Julie Mehretu Courtesy, Marian Goodman Gallery, New York. Foto di Tom Powel Imagin - foto da Pinautcollection.it

Terrazzo

Le mostre primaverili a Venezia tra i palazzi della Fondazione Pinault

Giulio Silvano

Nelle due sedi della Fondazione troviamo "Ensemble" di Julie Mehretu e "Liminal" di Pierre Huyge: da una parte le tele, dall’altra i video; da una parte i colori, dall’altra l’oscurità; da una parte i computer, dall’altra gli atelier di Harlem

Un colpo al cerchio e uno alla botte alle mostre primaverili della Fondazione Pinault. Sul Canal grande l’artista della diaspora – nera, lesbica, immigrata in America dall’Africa – e affacciati sul bacino di San Marco la grande mostra immersiva sull’intelligenza artificiale, temi caldissimi del momento. E poi siamo in un anno di Biennale d’arte – che l’ultima volta è stata vinta da una donna afroamericana che diceva che il suo lavoro era frutto della “soggettività femminile nera” – e c’è già fermento in città, chissà quest’anno quale sarà lo statement, chissà che succederà al padiglione israeliano, quello russo è pieno di ragnatele… Ma nella laguna assolata di inizio primavera ben venga abbracciare lo Zeitgeist se monsieur Kering ci porta per la prima volta in Italia due mostre monografiche importanti, quella di Julie Mehretu a Palazzo Grassi, “Ensemble”, e quella di Pierre Huyghe,“Liminal”, a Punta della Dogana. Da una parte le tele, dall’altra i video; da una parte i colori, dall’altra l’oscurità; da una parte i computer, dall’altra gli atelier di Harlem.
 

Ensemble “sia nel senso musicale sia nel senso di tutti insieme”, dice la curatrice. E infatti Merethu, “figlia di profughi eritrei” ma americanissima con la T-shirt larga e l’Apple Watch, appena arrivata da LA e che ha voluto nella mostra ospitare amici artisti per “dialogare” con le sue grandi, a volte grandissime, tele. Un gioco rischioso ma che qui è venuto bene, con gente come David Hammons e Jessica Rankin e il busto in legno di Justin Bieber-Ecce Homo nelle assolatissime sale del palazzo. Da perdersi davanti alle sue Black city o Chimera, che non rendono nel catalogo, così tridimensionali, irrequiete, con le tracce architettoniche seminascoste, stratificazioni urbane, e poi le fantasie 80s, come i sedili di un bus, o le esplosioni di nero e grigio che ricordano le danze delle lines di Kandinsky e le bombe su Aleppo. E poi le citazioni di Joan Didion in acquetinte allo zucchero. Opere bellissime da vicino e da lontano. “I quadri hanno bisogno di tempo per essere consumati, a livello temporale è più simile all’esperienza cinematografica”, ci dice Mehretu.
 

Liminal: “Una mostra quasi tenebrosa, attenti dove camminate”, spiega il direttore Bruno Racine facendosi strada nell’antro di Tadao Ando prima di essere irradiati da un gigantesco video di una donna nuda senza volto che è appena nata per mano dell’IA. Poi un rito funebre eseguito da un robot in un paesaggio desertico che aspira al sublime. Liminale come transizione tra l’arcaico e l’ipertecnologico. Dal sensibile all’inhuman. Getti di vapore multicolor e acquari con sagome di morti à la Pompei e teste di Brancusi e pesciolini e ragni marini. Mosche bloccate nell’ambra e donne con una maschera d’oro che ti sorprendono quando cammini su un pavimento lunare mentre una macchina crea una nuova lingua. Viaggio nel tempo oltre il tempo, un po’ nerd, un po’ dark, robot concettuali, la performance dell’algoritmo. 

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