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Lo Zodiaco sognato da Olivetti

Manuel Orazi 

Nel 1957 nasceva la terza rivista finanziata dal mitico ingegnere e imprenditore dopo Comunità (1946) e Urbanistica (1949). In "Zodiac 1957-1973. Una storia italiana" (Ronzani), i curatori Aldo Aymonino e Federico Bilò ricostruiscono la storia di questa rivista non allineata

Corre l’anno 1957 quando Mario Tchou, prodigioso ingegnere informatico, progetta e costruisce al centro Olivetti di Barbaricina (Pisa) il prototipo Elea 9003 interamente a transistor anticipando così l’Ibm e lasciando presagire un luminoso futuro per il nuovo settore elettronico dell’azienda caldeggiato da Adriano Olivetti, suo figlio Roberto e il giovane collaboratore per il disegno industriale che era Ettore Sottsass jr. Le strane morti in rapida successione di Adriano (1960) e Tchou (1961) portarono alla vendita di tutto questo comparto dell’azienda agli americani mentre, col senno di poi, avrebbe potuto gettare le basi per una Silicon Valley italiana. Nello stesso 1957 nasceva un po’ in sordina anche Zodiac, la terza rivista finanziata da Olivetti dopo Comunità (1946) e Urbanistica (1949), quest’ultima diretta da lui in persona. A proporre il nome ispirato alla Ford Zephyr-Zodiac, modello rilasciato solo tre anni prima, è Bruno Alfieri, consulente editoriale olivettiano, editore in proprio, fondatore di molte altre riviste d’arte nonché appassionato di automobilismo.

 

In Zodiac 1957-1973. Una storia italiana (Ronzani), i curatori Aldo Aymonino e Federico Bilò ricostruiscono la storia di questa rivista non allineata, l’unica dedicata all’architettura da Olivetti che ha fatto di questa disciplina uno dei suoi marchi di fabbrica, tanto che oggi Ivrea è patrimonio Unesco. Secondo Jean-Louis Cohen, Zodiac è stata l’espressione di un “internazionalismo critico… più paragonabile a una collezione di libri multi-autore che alla produzione standard di una rivista con un menu ripreso in tutti i suoi numeri”. Aymonino nota come il comitato editoriale iniziale non prevedesse la presenza di architetti ma per lo più storici dell’arte (Giulio Carlo Argan, Carlo Ludovico Ragghianti) così come chi ci scrive (Henry-Russell Hitchcock, Sigfried Giedion, Sergio Bettini), “segno di una precisa volontà di non avere una tendenza culturale già preconfezionata, ma piuttosto una vigile e sofisticata attenzione a quello che accade” e infatti sono presenti numeri monografici dedicati ai maestri (Gropius, Le Corbusier, Aalto, Wright), a interi paesi (Uk, Usa, Spagna), nuovi autori (Scarpa, Valle, Kahn, Ungers) e non certo gli architetti politicamente engagé, quelli vicini alla Casabella di Ernesto Nathan Rogers cioè i comunisti. Secondo Bilò i ventidue numeri della rivista costituiscono “un mondo complesso e variegato, di immensa ricchezza e massimo interesse, ma anche centrifugo e labirintico”, dunque rivolto a un élite come in fondo lo era tutto il movimento olivettiano – alle elezioni politiche del 1958 la lista Comunità raccolse circa lo 0,5 per cento. Quando Alfieri se ne va nel 1964 per fondare un’altra rivista di architettura, sempre ispirata a un’auto però da corsa (Lotus), gli succede Maria Bottero, la grafica delle copertine passa dunque da Roberto Sambonet a Umberto Riva. Quando la rivista chiude, nel 1973, Roberto Olivetti si era dimesso già da due anni da amministratore delegato.

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