(foto Olycom)

Terrazzo

Mario Schifano a tutto schermo nella mostra alle Gallerie d'Italia di Napoli

Michele Masneri

Le grandi tele del pittore romano nell’esposizione “oversize” curata da Luca Massimo Barbero. De Chirico, i monocromi e quell’amore per la tv (che lui capì sarebbe stata il futuro)

Esistono grandi pittori e pittori grandi. Mario Schifano è stato entrambi. Simbolo e cliché dell’artista maledetto e di subitaneo successo, di una certa Roma, con l’eroina e le contesse, e poi la fama il denaro la banda della Magliana. La sua vita sarebbe il soggetto perfetto per una serie, un “Romanzo criminale” visto dalle classi alte (imperdibili le sue storie, con la Rolls Royce fatta rubare a Fiumicino dai suoi fornitori maglianeschi al dittatore in visita Papa Doc, con l’idea di sfrecciarvi per Roma, ma poi Schifano  si vergogna, e non la usa, girando in Seicento).

 

O il trasferimento a palazzo Primoli dove Mario Praz che abita sotto non è per niente contento di questo vicino rumoroso, storia che poi finisce dritta in “Gruppo di famiglia in un interno”. Si possono leggere nell’imperdibile “Mario Schifano. Una biografia”, di Luca Ronchi, edizioni Johan & Levi. Ma la grandeur dell’artista romano in termini proprio di centimetri, anzi di metri, si può testare in questi giorni alle Gallerie d’Italia, nello splendido ex Banco di Napoli by Piacentini mirabilmente restaurato a via Toledo. Lì, ecco le enormi tele nella mostra “Nuovo immaginario. 1960-1990” a cura di Luca Massimo Barbero. Colossali dimensioni, soprattutto al piano terra, e già questa è un’eccezione, per un artista italiano e non americano (finita la committenza aristocratica ed ecclesiastica, come scrive Marco Meneguzzo nel catalogo, gli artisti europei erano ancora grandi, ma lo schermo, pardon la tela, era diventata piccola. In America no, destinati a grandi appartamenti e mansion e poi a finire naturalmente in qualche museo). Ma ecco l'eccezione italiana anzi romana:  Schifano fin da subito abbraccia il gigantismo, ecco qui la “Festa cinese”, tre metri per sette di bandiere rosse maoiste, collocato sotto nell’ex sala sportelli, quadrone che fu fatto per l’Avvocato Agnelli, per la casa romana di fronte al Quirinale, dalle dimensioni di un Fiat Ducato, ma poi oggetto di ripensamenti forse piccoloborghesi di Marella (“ma Gianni, con tutti quei cinesi, cosa diranno i capi di stato in visita…”. Anche se il più frequente e celebre era Fidel, e forse a quel punto lo scrupolo si sarebbe rivelato giusto, ma per gelosia, non per opportunità). 


Poi Schifano immagina il “videowall” di un tycoon (forse Berlusconi?) che guarda decine di schermi contemporaneamente, sintonizzati su tg e intrattenimenti, in “Per esempio”, 1990 (cinque metri per sei e cinquanta). Un enorme palinsesto in cui compaiono le faccine di Gorbaciov, Moravia, Andy Warhol, il suo simmetrico americano, e poi dinosauri, e poi De Chirico, che compare spesso come animale totemico nella produzione di Schifano: in fondo altro grande italiano a trovare una sua estetica e fama da irregolare ma immediatamente classico, legato a una visione archeologica-glamour-romana che taglia fuori la modernità e si ricollega direttamente al futuribile senza passare per il presente (non a caso, Schifano era figlio di un archeologo, nasce in Libia, e cresce letteralmente sui set di Cinecittà, trasformato in accampamento di sfollati).


La grande tv di Schifano è perfetta in questo salone grande come una piazza dove i più millennial e gen Z stan lì svaccati sui divani a ciondolare, ma queste tele sembrano pure schermate di iPhone con tutte le app, e chissà che avrebbe detto Schifano di TikTok. O TikTokTak, per dirla alla Berlusconi. Protagonista del Novecento, come il famoso claim di una televendita (genere frequentato dal Cav.) Schifano fin dagli anni Settanta, forse colpito dalla liberalizzazione delle tv private, capisce che il futuro è quello. In “L’inventario”, e nei “Paesaggi tv”, si capisce l'ossessione, nelle serie che riproducono trasmissioni sgranate e notturne, anche se si fa fatica a immaginare l'artista a passar la notte davanti alla tv: avrà avuto certamente di meglio da fare. E Praz, sotto, a smadonnare. 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).