Carlo Ripa di Meana alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2014 (Ansa)

Terrazzo

Alla Biennale di Carlo Ripa di Meana

Marina Valensise

In mostra a Ca’ Giustinian le fotografie meravigliose di Lorenzo Capellini sui quattro anni di presidenza che rilanciarono un'istituzione agonizzante. Moumenti di un'epoca remota, con un colpo d'occhio impressionante

Niente di più inedito dell’edito, diceva un grande del giornalismo come Alberto Ronchey, che non aveva paura del repetita. A dimostrare quanto avesse ragione sono le fotografie meravigliose di Lorenzo Capellini sulla Biennale di Venezia realizzate nei quattro anni di presidenza di Carlo Ripa di Meana, e in mostra a Ca’ Giustinian, la sede veneziana della Biennale. Incastonate in una serie di pannelli rosso Noorda, corrono lungo il portego che unisce il Calle Ridosso al Canal Grande. E il colpo d’occhio è impressionante. Sfilano come monumenti di un’epoca remota, che pure abbiamo vissuto da adolescenti, i grandi dissidenti sovietici, il poeta Iosif Brodskij, che parla tenendo un libro in mano, l’altra mano in tasca e la cravatta allentata, sotto di lui ecco Andrej Sinjavskij, colto di spalle, col gomito sul tavolo, il mozzicone di sigaretta appeso al dito, il filo dell’auricolare intrecciato alla lunga barba canuta. E poi Ronconi con la zazzera sessantottina, Gregotti dal sorriso sornione, Gae Aulenti in posa dolcissima, nonostante la presenza dell’allora Marina Lante della Rovere, Lina Sotis, Carla Fracci, Luciana Savignano e tante altre muse famose.

 

Fra tutte spiccano le istantanee della Biennale del Dissenso, la coraggiosa iniziativa del 1977, voluta dal socialista Bettino Craxi, osteggiata dai comunisti, sbeffeggiata dalla sinistra radicale, come si evince dai molti articoli dell’Unità, dell’Avanti, del Corriere della Sera che corredano le foto. Carlo Ripa di Meana era arrivato alla testa della Biennale da tre anni, eletto dal Consiglio direttivo, grazie allo scarto di un unico voto, che poi era il suo, come egli stesso avrebbe confessato quarant’anni dopo ricordando quel gesto inusitato, “forse poco elegante, ma inevitabile per neutralizzare il colpo di mano del Partito comunista, contrario alla mia candidatura”. Fu così che quel simpatico dandy, che aveva fatto l’imbianchino, il libraio, il presidente dei giovani comunisti prima di convertirsi al socialismo libertario, e che era un grande conoscitore dell’Europa dell’Est, e un fine tessitore delle infinite tele del lavoro culturale, finì sfacciatamente a capo di un’istituzione agonizzante, da quando nel 1968 era stata chiusa, causa contestazione di affaristi, papaveri, paillettes, abiti d’eleganza e vacua mondanità.

 

Ed ebbe il coraggio di rilanciarla in modo ardito, associando sin dall’inizio nell’impresa il suo amico Lorenzo Capellini, un altro dandy dall’apparenza svalvolata, come risulta da una delle foto in mostra che lo coglie accanto a CRdM in un brindisi ad alto tasso etilico, e che però aveva alle spalle un percorso di tutto rispetto iniziato con le lastre per il Mondo e la benedizione di Mario Pannunzio, e continuato ancora meglio a Londra, negli anni dei Beatnik, e poi in Spagna e in Africa, sulle orme di Hemingway e Orson Welles. Oggi le foto di Capellini, 250.000 immagini che formano un archivio iconografico del secondo Novecento, sono state acquisite dall’Archivio storico della Biennale. Il che segna per lui un ritorno a casa, visto che era stato lui stesso a tenere a battesimo la Biennale per come oggi la conosciamo, la principale istituzione culturale italiana con le sue tante discipline, arte, architettura, musica, danza, teatro, da allora aperta all’ipercontemporaneità e al farsi stesso della storia, come hanno ricordato il presidente Roberto Cicutto e la vicepresidente Debora Rossi inaugurando le due giornate di studio che per l’occasione hanno voluto dedicare a quegli anni. Un’altra iniziativa è dedicata nel frattempo a Capellini: a Fratta Polesine, Villa Badoer mette in mostra fino al 28 maggio le sue foto di Goffredo Parise e del suo Veneto barbaro di muschi e nebbie.

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