Anna Castelli Ferrieri (CityLife)

Terrazzo

Il bagno, una navicella spaziale. Dove comincia l'avventura di Anna Castelli Ferrieri

Chiara Sfregola

Vita e opere dell’architetta milanese, designer e direttrice creativa di Kartell, una delle prime donne a laurearsi in Architettura al Politecnico di Milano. Il libro di Chiara Sfregola

Questo testo è tratto da “Anna Castelli Ferrieri” di Chiara Sfregola, appena uscito per Giulio Perrone Editore.


Mi avevano portata in fabbrica a vedere i granuli di polietilene: ci avevo infilato la mano dentro come in un sacco di caramelle alla liquirizia. Era piacevole. I granuli erano neri, il colore dei tubi per l’irrigazione che l’azienda si era messa a fabbricare cessata la produzione di tapparelle. Un ruscello di granuli piombava dentro la bocca dell’estrusore e da lì, una volta fusi, riemergevano sotto forma di tubi che venivano avvolti in rotoli grandi come code di dinosauro. Con la plastica si poteva fare tutto. Fissavo il mobiletto a lungo mentre mi facevo sciacquare pazientemente i capelli con la camomilla nella speranza che mantenessero per tutti i mesi invernali i riflessi biondi acquisiti durante l’estate. Il mobiletto invece non aveva un’aria paziente, per niente. Sembrava dire: “Io sto qui, ma se voglio vado dove mi pare. So fare molte cose e contenere molti oggetti. non morirò in questo bagno. Ah, e non mi faccio spaventare dalla porta”.

 

La porta era – è ancora – un oblò. Nella parete c’era quest’anta ovale, la porta appunto, e per entrare nel bagno bisognava scavalcare la parte inferiore, venti centimetri circa. Ai miei occhi questa porta era la più grande attrattiva della nostra casa: dava l’idea di una navicella spaziale, e da bambini ci giocavamo fingendo di essere astronauti in missione speciale. Grazie alla porta anche l’interno del bagno ci sembrava spaziale, pur essendo nient’altro che un mosaico di piastrelle celesti. Il problema era appunto che bisognava avvertire gli ospiti di scavalcare questo varco che mio padre, architetto, aveva fatto costruire dentro casa per puro divertimento. Spostare un mobile di legno sarebbe stato complicato: ci sarebbero volute due persone, e ci sarebbe stata la paura di rovinarlo, di graffiare il pavimento. Il carrellino invece fu spostato facilmente, addirittura fu spostato al piano di sopra, segno che qualcuno lo aveva portato senza troppa fatica lungo la rampa di scale.

 

Non ricordo quando avvenne, ma cominciò a contenere Cd, Cd Rom, articoli di cancelleria, e nel vano superiore, dove prima tenevamo il phon, adesso c’erano rotoli di carta trasparente su cui erano disegnati i progetti di mio padre. Fu messo accanto alla scrivania su cui stava il primo computer mai entrato in casa. La scrivania era in metallo, grigia e verde. Scoprii che era della Olivetti e adesso so che si chiamava Synthesis. Aveva gli angoli smussati come il mobiletto ma era fredda, pesante, anche lei poco propensa agli spostamenti. Non mi stava particolarmente simpatica. Il mobiletto invece sì. Aveva sempre quell’aria sbarazzina di chi ha mille risorse e niente da perdere. Al suo posto arrivò in bagno un altro mobile di plastica, una cassettiera bianca. “Ti piace?” mi chiesero. “È della Kartell”.

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