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Terrazzo

Paolo Gioli è l'anti Ghirri che gioca con le possibilità

Giulio Silvano

Da una parte la serenità e l’immobilità, dall’altra l’agitazione e il movimento, da una parte la pulizia delle forme, la simmetria, dall’altra la contaminazione, la sovrapposizione. Da una parte gente anonima di spalle che guarda il mare, dall’altra close-up sugli occhi, per riprendere la linea lunga di Buñuel

Paolo Gioli, nato sotto il segno della Bilancia, è morto cinque giorni fa a Lendinara nel Polesine, dove lavorava. Un anti Ghirri, dalle altre sponde del delta del Po. Da una parte la serenità e l’immobilità, dall’altra l’agitazione e il movimento, da una parte la pulizia delle forme, la simmetria, dall’altra la contaminazione, la sovrapposizione. Da una parte gente anonima di spalle che guarda il mare, dall’altra close-up sugli occhi, per riprendere la linea lunga di Buñuel. O le foto di Bert Stern di Marilyn Monroe, che Gioli monta e ne fa un corto. O le foto fatte alle sculture funerarie, raccolte nel libro di Humboldt books Etruschi. Polaroid 1984, scattate a Volterra. “Umido incunabolo della storia moderna”, diceva delle Polaroid, tra i suoi dispositivi preferiti, perché il risultato era sempre inaspettato. 
Se Ghirri è il cantore puro dell’Emilia, dell’altra parte del fiume, Gioli gioca con le possibilità che regalano le vibe moderniste di quell’avanguardia che ha visto nel suo breve soggiorno americano nel ’67, ma anche un po’ il post cubismo di Hans Richter, tentando un gioco di materie, mescolando carta fotografica e olio su tela, ma anche avventurandosi in media diversi. Tanti i suoi film, giochi di raddoppio, dissolvenza e stroboscopia; uno su Duchamp, uno su Rothko, spesso ricavati fotografando immagini dai libri.  Si trovano nelle collezioni degli istituiti, è roba da Pompidou, e magari un giorno verranno ritirati fuori per una monografica, o per una riscoperta postuma mainstream, quando finirà la dittatura estetica del levigato, per dirla alla Byung-Chul Han.

 

La sua carriera sembra svolgersi in un laboratorio in cui si fanno prove e tentativi, testando dispositivi e idee. I giornali alla notizia della morte hanno usato la parola “sperimentatore”. In un’intervista Gioli diceva di non amare molto l’etichetta, perché rendeva un senso non definitivo ma di precarietà. “Molto spesso le opere definite sperimentali sono opere compiute: l’esperimento e la ricerca si trovano se si ricostruisce un’anamnesi dell’opera, del come è stata fatta. Questo sì è interessante, ed è sperimentazione, ma non l’opera in sé che è la fine del percorso ed è un cosa finita”. Raccontando di una tecnica che si era inventato lui, mettendo la carta fotografica in mano e impressionandola dal foro che si viene a creare stringendo il pugno, diceva: “Questo procedimento è sperimentale, non esiste neanche nella storia della fotografia. Pensa, è un metodo che ho inventato io, un coglione di Rovigo!”.

 

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