Ufficio della Industrial Light & Magic (foto Getty)

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C'è chi a Venezia parla di tutto tranne che di cinema e poi, per fortuna, c'è “Light & Magic”

Andrea Minuz

Una miniserie in due stagioni diretta da Lawrence Kasdan, che celebra invece il cinema come gioia creativa, mestiere di matti, invenzione continua: la cosa più distante che possa esserci dalla politica. Non è roba da nerd, ma un’epica western

Il Festival di Venezia è appena iniziato e già lo sappiamo: il cinema tornerà a essere tutto tranne che cinema. Sarà lusso, glamour, impegno civile, arte con la A maiuscola. Sentiremo parlare di spacchi, scollature, Gaza, fine del woke, università americane sotto attacco (c’è Julia Roberts prof. di Filosofia a Yale). Questa innocua rubrichetta suggerisce una via d’uscita. Sono i giorni ideali per vedersi o rivedersi, “Light & Magic”, miniserie in due stagioni diretta da Lawrence Kasdan, che celebra invece il cinema come gioia creativa, mestiere di matti, invenzione continua: la cosa più distante che possa esserci dalla politica.

Da noi è passata un po’ inosservata ma è un piccolo capolavoro (la trovate su Disney). Non racconta solo l’ascesa della “Industrial Light & Magic” (la più grande azienda di effetti speciali) e la realizzazione di “Star Wars”, cioè il sogno di un gruppo di matti, George Lucas in testa, che ha cambiato la storia del cinema. Forse l’avete scartata pensando “è roba da nerd”. Non è così: non sono un patito della tecnologia, non ho mai letto “Weird”, non vado oltre Adobe, non ho i pupazzetti di “Star Wars” in casa. “Light & Magic” va vista come un’epica western. Il racconto di una banda di squinternati che ha conquistato l’ultima frontiera del Novecento: quella dell’immaginazione tecnologica. Come Yul Brynner nei “Magnifici Sette”, George Lucas attraversa la California con l’occhio del reclutatore: qui un mago della meccanica di precisione, là un artista della luce, più in là uno scultore di creature impossibili. Ognuno con la propria specialità letale. Ognuno con la fame di conquista dei grandi pionieri.

Quando nel 1975 fonda la ILM, Lucas non apre un’azienda: pianta una bandiera su un continente inesplorato. I primi mesi sono un western tragicomico: budget che evaporano come whisky nel deserto, deadline impossibili che si avvicinano come tempeste di sabbia. Lucas osserva i suoi ragazzi bruciare soldi e tempo con la pazienza stoica del rancher che sa che quei cowboy prima o poi ce la faranno. Vediamo i fallimenti, le frustrazioni, le notti insonni passate a riparare modellini che si rompevano durante le riprese. Vediamo Lucas che deve licenziare metà del team dopo “Guerre Stellari” per pura sopravvivenza economica. “Light & Magic” è un western magnifico travestito da documentario. Una celebrazione di quel senso del rischio, anzitutto economico, che dovrebbe stare dentro ogni grande impresa cinematografica. Un gruppo di pionieri abbraccia la tecnologia non come minaccia, ma come strumento di meraviglia e cambia per sempre il modo in cui si fanno i film. Lucas e i suoi cowboy non temevano di sostituire gli effetti tradizionali con quelli digitali. Sono letteralmente posseduti dalla fiducia nel futuro. Dall’idea del cinema come atto creativo che deve sempre reinventarsi per non sparire. Mentre a Venezia si discute del futuro dei film in un fiume di tavole rotonde, “Light & Magic” ci ricorda che il futuro non si discute: si inventa. Con i budget che evaporano e la certezza che l’impossibile è solo questione di tempo. L’AI è solo la prossima frontiera da conquistare. Bastano i cowboy giusti.