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La recensione

Gli antieroi di Succession

Claudio Giunta

Ode ai protagonisti della satira tragicomica americana. Un “Mastro-don Gesualdo” al crepuscolo dell’epopea capitalista

Dei figli di Logan Roy a me piaceva specialmente Connor, che è l’ipotiposi del fesso senza talento, come tanti, ma a differenza dei tanti ha avuto in sorte di nascere straricco, e quindi deve sciogliere in qualche modo questa contraddizione: infinite possibilità dischiuse davanti a sé e nessuna voglia o capacità di coglierle. Maggiore degli eredi Roy, Connor ha capito presto (lo ha capito con lo stomaco più che col cervello, appunto perché è fesso) di essere una specie di don Abbondio, vaso di terracotta in mezzo a vasi di ferro, perciò ha detto al padre e ai fratelli: voi mi date una fetta della torta, un assegno mensile, e io mi faccio da parte; voi amministrate, riunite, tramate, fallite, trionfate, e io me ne sto per conto mio a non fare niente. Questo niente si precisa man mano in attività sceme da milionario: Connor difensore dell’ambiente, cioè di un angolino dell’ambiente naturale, il suo; Connor patrono delle arti, cioè dell’arte della sua giovane compagna e poi moglie (nonché ex escort) Willa, che non sapendo bene che fare fa l’attrice, ed essendo intelligente indossa per tutta la serie la faccia di una che si trova lì ma vorrebbe essere da tutt’altra parte, aggiungendo imbarazzo o, come si dice, cringe, a quel grumo d’imbarazzo che è Connor.


Giorni fa è uscito su Instagram il video di uno scrittore di terza fila che in trenta secondi spiegava con tono ispirato come e perché si scrive un romanzo. La sproporzione tra le non grandi capacità dello scrittore di terza fila e il grande sussiego con cui declamava la sua lezioncina lo rendeva teneramente ridicolo, il ridicolo che nasce dall’inconsapevolezza di sé, e questo mi ha fatto venire in mente subito Tommaso Labranca, perché in Andy Warhol era un coatto Labranca ha descritto con molto spirito questa situazione, l’imitazione fallita di un modello alto (qui, diciamo, lo scrittore da poco che si atteggia a scrittore da molto), e l’ha chiamata trash. Poi però mi è anche venuto in mente Connor Roy. Connor Roy, l’imitazione fallita di… Di chi? Di qualsiasi figlio di miliardario troppo spirituale per mescolarsi alle faccende della vita, e che perciò prende una strada diversa: va in Asia a studiare le tribù primitive, si converte a una religione orientale, rinuncia a tutto e va a vivere insieme ai dannati della terra. Meno conseguente di costoro, cioè appunto fallimentare nella sua imitazione, Connor si accontenta di intestarsi un pezzo del patrimonio familiare, si ritira nel suo ranch in New Mexico, sviluppa fissazioni (nella prima serie straparla di criogenesi, progetta un podcast su Napoleone).


Gli altri no. Gli altri, volendo, sono anche peggio di lui, che ha pure dei bei momenti di tenerezza, che a differenza degli altri sembra poter davvero amare – per come ama un fesso – la sua attrice dilettante, e che se, come e più dei fratelli, non fosse stato mutilato nella sfera affettiva forse avrebbe potuto diventare un essere umano decente. Però gli altri – Kendall, Roman, Shiv – sono intelligenti e, soprattutto, consapevoli di sé. Sanno benissimo che cosa vogliono (il potere, il rispetto degli estranei, l’amore del padre), sanno di essere crudeli e infidi, lo sanno così bene da poterci scherzare sopra: una degli aspetti più affascinanti dei tre fratelli, soprattutto di Roman e Shiv, è la loro autoironia, il loro sapersi incrinati dentro (lo sanno anche quelli che gli stanno intorno; Tom a Shiv in una delle loro scene madri: “I have given you endless approval, and it doesn’t fill you up because you are broken”), e saperne sorridere. 


Ora, la verità è che di tipi determinati e – pur nella loro abiezione – consapevoli come Kendall, Roman e Shiv in giro non se ne vedono poi tanti, mentre è più diffuso l’idealtipo Connor Roy, l’uomo che si ignora, che non è in grado di mettere in prospettiva i propri desideri, le proprie opinioni, le proprie pratiche di vita, anche e soprattutto quando crede, al contrario, che tutto ciò passi al vaglio di una coscienza vigile, acuta. Dei quattro, Connor è l’intellettuale, il dialettico, quello che convoca l’intera famiglia nel suo ranch per una sessione di autoanalisi, e arruola un analista imbecille che declama Larkin e poi si fracassa i denti tuffandosi in piscina (commento di Logan: “I was about to take advice from a clown who dives headfirst into the shallow end of the pool”). Ecco, forse se lavorassi alla Borsa di Milano la vedrei diversamente, forse riconoscerai in tanti lo stigma di Kendall, di Roman e di Shiv; ma dato che passo il mio tempo tra scuole e università e leggo i giornali, non passa giorno che non mi passi davanti almeno un Connor Roy. 


Di “Succession” si è scritto molto in tutto il mondo e anche in Italia, non solo perché la qualità del prodotto lo merita (in questo quarto di secolo di serie tv una spanna sopra restano forse soltanto “I Soprano”), ma anche perché la storia di una famiglia simile ai Murdoch ha offerto spunti di riflessione diciamo extra artistici, e insomma si è colta l’occasione per parlare di comunicazione, tecnologia e, soprattutto, Capitale. Tra i meriti del libro che Gianluigi Rossini ha dedicato alla serie (Re Lear a Manhattan) c’è quello di non aver insistito troppo su questa dimensione documentaria (“Succession” come specchio del capitalismo neoliberale), e di aver trattato invece la serie come un organismo narrativo che per essere meglio compreso può essere smontato, descritto nelle sue parti e funzioni, come si smonta appunto un dramma shakespeariano (una strada analoga ha preso, intelligentemente, Valeria Flamini su “Le parole e le cose”, ma nel suo caso l’analogo narrativo scelto per il paragone è I fratelli Karamazov: anche qui un padre problematico e tre figli, più un quarto naturale, il degenerato Smerdjàkov). 


Perché, per quanto acute e veritiere e ben sceneggiate, quaranta ore di “discorso sul capitalismo” non si sarebbero rette. Invece quaranta ore sul tema “Come possono fare schifo gli esseri umani”, quelle si vedono con piacere (perché fanno tutti più o meno schifo, peggio che nei “Soprano”: e la cosa che sorprende e diverte è vedere come tipi umani paragonabili, fallimenti umani paragonabili si producano sia in un contesto d’inciviltà e incultura sia in un contesto di privilegio). Sì, c’è la questione “effetti indesiderati della ricchezza”, che è interessante (Kendall al funerale del padre: “Ma, Dio mio, guardate: le vite… le cose che ha fatto. E i soldi. Sì, i soldi. Il sangue, l’ossigeno di questa meravigliosa civiltà che abbiamo costruito dal fango”), e Rossini sintetizza molto bene il nodo il tema o la domanda che sta al fondo dell’intera serie: “come funziona l’amore (genitoriale, filiale, fraterno, coniugale) in una cultura in cui il valore primario e la razionalità dell’agire economico? L’amore per i figli e un problema per Logan, sarebbe un capo d’azienda migliore se non li amasse. I ragazzi sono degli incapaci anche perché non riescono a separare l’azione e la sfera affettiva. “Succession” quindi ha una tesi profonda, ma non c’è moralismo: non intende dimostrare che l’homo oeconomicus ha perso la capacita di amare, intende provare a capire come si articola l’affettività in un mondo in cui è giusto e scontato che tutti, in ogni circostanza, abbiano sempre come primo obiettivo il guadagno individuale”. Sopprimere la sete di guadagno vorrebbe dire sopprimere l’infelicità? Ma no, perché in realtà i nostri antieroi non agiscono veramente secondo “la razionalità dell’agire economico”, e già non sanno che fare dei troppi soldi che hanno. A muoverli – ed è una delle ragioni per cui “Succession” è una serie magnifica, e può essere paragonata ai capolavori della letteratura – sono pulsioni più profonde, fondamentali della vita come il desiderio di comandare (che può non avere niente a che fare coi soldi), gli abusi commessi e subiti, l’amore e l’odio per i consanguinei, l’invidia, e su tutto, onnipresente, tanto da occupare forse, impercepito, il 90 per cento dei pensieri delle azioni di tutti, non solo dei Roy, il vizio prediletto da Satana, la vanità. 


La vanità è l’entelechia e insieme la nemesi di tutti i protagonisti di Succession, alla fine anche del mio prediletto Connor. Gli sceneggiatori devono essersi domandati: “E a Connor che gli facciamo fare? Che succede nella sottotrama del fratello scemo?”. E qualcuno ha avuto l’idea: candidato indipendente alla Casa Bianca, a destra dei Repubblicani. Candidato senza speranze, patetico, votato alla sconfitta. Peggio, votato alla sconfitta e convinto che il suo zero punto qualcosa percentuale possa essere barattato con… Con che cosa? Con un altrettanto patetico posto di ambasciatore in qualche paese senza importanza. Ma naturalmente le cose gli vanno male anche stavolta, l’ambasciata di… Slovenia – sì, Connor si sognava ambasciatore degli Stati Uniti in Slovenia, forse per viaggi precedenti nei Balcani, lussuose battute di caccia, forse per confuse memorie asburgiche (“Vienna for lunch, Venice for dinner… and Dubrovnik for breakfast”) – gli sfugge dalle mani, è costretto a tornare nei ranghi. E nella penultima puntata, al funerale del padre, durante il quale nessuno si sogna di chiedergli di parlare (lo aveva fatto tempo prima al funerale di un dirigente della Waystar-Royco, inanellando gaffe memorabili, facendo sprofondare Willa), il regista lo inquadra per un attimo mentre Kendall dal pulpito sta magnificando le gesta di Roy, le cose grandiose che Roy ha fatto, la sua forza, i destini che ha plasmato quell’uomo che “era a suo agio nel mondo”, e la faccia allibita di Connor dice meglio di qualsiasi altra cosa – meglio anche del gran finale, col suicidio familiare e la cessione dell’azienda ai nuovissimi ricchi europei, e il trionfo del maschio beta Tom – quale sia il vero argomento di “Succession”: non ciò che succede quando il capitalismo offre campo aperto agli animal spirits degli esseri umani, al loro istinto di sopraffazione, e gli infiniti dolori provocati dalla liberazione di questo istinto ma, al contrario, ciò che succede in una società capitalista quando gli animal spirits si ottundono, cessano di agire perché chi dovrebbe rimetterli in circolo è troppo viziato (Roman), o nevrotico (Kendall), o insicuro (Shiv), o ha potuto sfruttare il proprio privilegio esiliandosi dal mondo (Connor). 


“Succession” non è un’epopea del Capitale ma una satira tragicomica sul crepuscolo di quella epopea, e sui suoi minuscoli protagonisti. Spregevole fin che si vuole, Roy è stato un fondatore, un creatore. Re Lear era un re, il suo trono l’aveva ereditato; Fyodor Karamazov non ha creato niente. “Succession” parla della dissipazione, non della creazione. E il neoliberismo c’entra poco. Anche se non è una storia “antica quanto l’uomo”, è una storia che è diventato possibile raccontare da quando è diventato possibile, e persino normale, accumulare fortune, e buttarle via, nello spazio di una sola esistenza, anzi di una sola generazione. “This city…”, dice Logan guardando New York: “The rats are fat as skunks. They hardly care to run anymore”. Ma infatti: che bisogno c’è di mettersi a correre, se qualcun altro l’ha fatto per te? A mano a mano che le puntate si susseguono, e niente accade se non l’estenuante piétiner sur place della battaglia per la successione, lo spettatore-letterato finisce per mettere a fuoco il vero modello a cui Jesse Armstrong dev’essersi ispirato, il libro che su ricchezza e famiglia ha detto tutto l’essenziale già centocinquant’anni fa (intelligente com’è, Armstrong l’avrà letto in italiano? Nella vecchia traduzione di D.H. Lawrence?); a mano a mano che Logan – avido, ostinato, diffidente, votato alla solitudine (“You’re my best pal”, sussurra alla sua guardia del corpo in una bella scena didascalica) – cesella la propria infelicità, lo spettatore-letterato riconosce in filigrana un altro padre-creatore la cui vecchiaia è guastata dalle angosce di una successione complicata o, come la si chiamava allora, eredità. Perché che cosa succede a tutta la roba che, partendo dal niente, Mastro-don Gesualdo ha accumulato in un’esistenza di fatica e di sacrifici? Diventa la dote della sua debole figlia Isabella, una che proprio come i fratelli Roy è nata nell’agio, e dato che per ogni dote c’è un cacciatore di dote, ecco che la roba finisce nelle tasche bucate di un genero fatuo e venale che non si chiama “Tom” come un qualsiasi arrampicatore sociale del Minnesota bensì, molto spagnolescamente (sul contratto nuziale, osserva gelido Verga, “la firma del genero pigliava due righe”), Alvaro Filippo Maria Ferdinando Gargantas di Leyra.

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