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Il commento

Un'iniezione di realtà nella sit-com. Era la grande tv di Norman

Mariarosa Mancuso

Produttore e sceneggiatore leggendario, è morto a 101 anni. I suoi programmi erano pensati per spettatori adulti e ciò voleva dire che si discorreva di politica, di guerra del Vietnam e di altre cose che non si sentivano in tv

Gli artisti, anche al massimo della celebrità, e con il gusto per la battuta, di fronte al successo altrui sono sempre acidini. Disse Bob Hope: “Siamo tutti molto fieri della televisione americana, e di Norman Lear che la possiede”. Non era solo una battuta, negli anni 70 e 80 era la verità. i programmi di successo li aveva scritti tutti Norman Lear, morto a Los Angeles all’età di 101 anni, ed erano programmi contemporanei. Non storielle da anni 60, con la mamma che non osava confessare a papà di avere urtato la macchina del vicino. O patemi perché il capufficio veniva a pranzo e l’arrosto era bruciato. La felicissima sintesi è di Norman Lear medesimo, in un’intervista di dieci anni fa ripresa dal New York Times. Per fare un paragone: fece alle sit-com quel che gli americani fecero al giallo inglese. Aggiunse un po’ di realtà – dire vita sarebbe sconveniente.

I programmi di Norman Lear erano fatti per chi leggeva i giornale, in caso contrario sarebbero sfuggite molte battute. Erano per spettatori adulti – e ogni volta che lo diciamo corre un brividino lungo la schiena, all’epoca per adulti voleva dire “porno”. Televisivamente parlando, per adulti voleva dire che si discorreva di politica, di guerra del Vietnam, della brutta gente che era venuta ad abitare nel quartiere. Archie Bunker – nelle versioni italiane sarà Arcibaldo, nella serie “All in the Family” e poi nello spin off tutto suo – ce l’ha con chiunque. Fa il tassista, mestieraccio per chi già non sopporta i suoi familiari. In particolare il futuro genero di origini polacche. I vicini di casa neri (i Jefferson, proprio loro). La cugina Maude, divorziata tre volte e femminista. La famiglia Lorenzo, coppia mista italo-irlandese. Archie Bunker era un bigotto insopportabile, e si spera che lo sfottò abbia fatto cambiare idea a qualcuno che la pensava come lui. Era la televisione. Niente a che vedere con il cugino su Twitter che svela verità rivelate dal cognato. Cose che non si sentivano in tv.        

C’erano cartelli di avvertimento, prima degli episodi (tutti i personaggi  hanno dato origine a spin off). Nulla di quel che bisognerebbe mettere adesso, per gli spettatori degli anni 2020 – il woke ha ucciso la comicità come l’abbiamo conosciuta finora.  Neanche esistono più grandi professionisti come Norman Lear, capaci di passare dalla radio al cinema alle sitcom. Gli Stati Uniti avevano bisogno di spettacolo – non bastava la radio, con gli spettacoli in diretta come la pubblicità. Guardare, per credere, il grande omaggio di Robert Altman in “Radio America”: via i protagonisti della commedia, due altri attori e i rumoristi cantavano il jingle dei biscotti da colazione. Norman Lear con il suo socio Mr Simmons aveva iniziato a scrivere per Jerry Lewis e Dean Martin, comici di “The Colgate Comedy Hour” – lo sponsor pagante introduceva il programma. Al già  straripante portafoglio aggiunse il cinema. “Divorzio all’americana”, da una commedia di Neil Simon. E “Quella notte inventarono lo spogliarello” (creativo titolo italico). Una celebrazione del burlesque diretta nel 1968 da William Friedkin.
 

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