Scandali britannici

Una serie perfidamente inglese senza le remore che frenavano “The Crown”

Mariarosa Mancuso

“A very british scandal”: una duchessa e i suoi 88 amanti in tre episodi che trascinano nella Londra, ancora un po' bigotta ma con un grande gusto nel vestiario, degli anni '60

Uno stile di vita che alcuni potrebbero definire “sofisticato”, e il resto del mondo chiama “immorale”. Sentenza del tribunale londinese che nel 1963 condannò per adulterio la duchessa di Argyll, attribuendole (mentre era sposata con il duca) 88 amanti. Uno dei quali fu immortalato nudo, nel bagno di lei che stava inginocchiata, con una Polaroid. La duchessa era perfettamente riconoscibile per via dei gioielli, il compagno di giochi fu tema di dibattito in tribunale, con tanto di perizia diciamo così “pubica”. Deve aver spettegolato molto anche l’aristocrazia, oltre alla stampa popolare che cavalcò il caso per mesi. Va detto, per inciso, che il peccato mantiene in forma, a giudicare da come la vispa duchessa di Argyll appare alla fine della miniserie “A Very British Scandal” (tre episodi, tre ore in tutto, su Timvision).

 

Ci sono format narrativi che ormai terrorizzano. Per esempio la docu-serie, quasi sempre un documentario che per risparmio non fa lavorare il montatore, tutto quel che regista gira finisce sullo schermo). Anche “Da una storia vera” è ormai un’etichetta che mette paura: gli sceneggiatori pensano che il loro compito sia meno complicato, se poi al centro c’è una celebrità sembra facile come fare una telefonata. Peggio: nessuno più sa valutare il peso e densità della materia narrativa. Storielle che non reggono un paio di episodi sono espanse fino a diventare serie, se poi hanno successo arriva pure la seconda stagione. In tutta sincerità: terrorizza anche la “serie in costume”. Confessiamo che neanche i film ambientati nel passato erano in cima ai nostri gusti, e registriamo però un singolare fenomeno. Nei film a volte il guardaroba era così curato che gli attori sembravano manichini – e addio trama. In una serie come “The Gilded Age” – che pure ha dietro l’impeccabile “Downtown Abbey” e come conoscitore della materia il barone Julian Fellowes – la New York è fatta di cartone, e di cartone sembra. I personaggi spiegano e rispiegano la trama agli spettatori distratti, anche quando dovrebbero corteggiarsi o vestirsi per il ballo. E ripetono con insistenza che a Brooklyn si andava con il traghetto.

 

“A Very British Scandal” è terribilmente inglese, made in Bbc. Quindi perfidamente scritto, senza le remore che per esempio frenavano gli episodi di “The Crown” con la beniamina degli spettatori Lady Diana (c’è malafede, per controprova guardate il crudele trattamento che tocca a Margaret Thatcher). Si chiude all’inizio degli anni 60, mettendo addosso a Claire Foy – è lei la ricca fanciulla che dopo un breve corteggiamento sposa il duca di Argyll, un Paul Bettany piuttosto malmostoso – splendidi abiti da sera, da città e soprattutto da campagna (con gli altri capi l’eleganza viene più facile). Il duca ha un piano: restaurare con i soldi della consorte (e del di lui ricchissimo genitore) il castello di Inveray, nella profonda Scozia dove i laghi sono abitati da mostri oppure – come in questo caso – custodiscono relitti. Naturalmente il duca vorrebbe portare in superficie l’antica nave. Ma è così poco ricco che per mantenersi (con vergogna) si piega alla pubblicità delle calze con i rombi Argyll.

 

Fatalmente litigheranno (ancor prima che i soldi finiscano). Lei uscirà di pomeriggio e di sera in compagnia di giovanotti. Segnerà gli incontri amorosi sull’agenda con una V. Fu la principale prova a carico, come lo era stato il diario dell’attrice Mary Astor una trentina di anni prima. Anche sposata, e incapace di tenere a memoria i dolci ricordi. Iniziali per nascondere ai curiosi l’identità dell’amante, qualche parola di commento sulle acrobazie del pomeriggio.