L'intervista

“Ho inventato il talk, e vedo che mi è scappato di mano”. Intervista a Maurizio Costanzo

Salvatore Merlo

Il maestro della televisione ha creato i mostri prima di chiunque altro. E sempre però li ha domati all’interno d’uno spettacolo dichiarato come tale. "Non oso dirlo, ma il degrado non è soltanto degli ospiti. È un po’ generale"

“Ma certo che in tv c’è una commistione tra spettacolo e informazione. E non si capisce più niente. Così si danneggia l’informazione, credo. E si danneggia anche il talk-show”. Dice proprio così, lui, il maestro, l’uomo che il talk-show in Italia lo ha inventato: “Bontà loro”, correva l’anno 1976. E poi il “Maurizio Costanzo Show”, spettacolo immortale che compie quarant’anni. Mai avuto l’impressione che la sua invenzione televisiva le sia sfuggita di mano? “Altroché”. E certo anche lui, Maurizio Costanzo, invitava gli strambi, i mattocchi, proprio come fanno Bianca Berlinguer e Giovanni Floris, Mario Giordano e Lilli Gruber. Ecco il critico d’arte turpiloquente, l’intellettuale travestito, il polemista manesco, insomma gli acchiappa audience che oggi si chiamano Orsini, Di Cesare, Scanzi, Donato, Mauro Corona... “Io li ho sempre messi a teatro i miei personaggi, con il pianoforte, con l’orchestra, con il cantante”. Il posto loro. Curiosità: ma lei l’elmetto in testa in collegamento dal fronte di guerra l’ha mai indossato? “Io non ho mai fatto collegamenti. Sono proprio un elemento che imbastardisce, perché confonde informazione e intrattenimento. E un po’ mi sfugge perché il mio amico Giletti se ne vada a Odessa invece di stare nel suo studio a Roma”.  Distinzione di generi, dunque: intrattenimento, senza la pretesa di vincere premi di giornalismo. In pratica senza l’indice sul labbro alla Corrado Formigli.

E certo Costanzo ha creato i mostri televisivi, sul serio. Prima di chiunque altro. E sempre però li ha domati all’interno d’uno spettacolo dichiarato come tale. Con onestà. “Quelli che lei chiama ‘mostri’ nel mio caso non erano personaggi d’una stagione, badi bene. Pensi a Vittorio Sgarbi o a Stefano Zecchi. Esistono ancora, indipendente dalla televisione. Perché valevano e valgono”. E il professor Orsini invece è il personaggio di una sola stagione, come il bagnino del villaggio vacanze? “Non esprimo giudizi”. Poi però in un soffio: “Diciamo che Orsini non è Sgarbi”. Come Scanzi non è Roberto D’Agostino? “Gli ospiti bisogna costruirli”. Ma come si fa? “Bisogna avere una buona redazione. Sgarbi lo scoprimmo leggendo alcune cose che aveva fatto. Non oso dirlo, ma il degrado non è soltanto degli ospiti. E’ un po’ generale”.   

Cos’è cambiato? “Non saprei dire. Mi ricordo Giovanni Minoli quando andai da lui a ‘Mixer’. Era impegnativo andare da Minoli. Ora le interviste che vedi in tv sono per lo più promozionali. Il ‘grandissimo’ libro di Tizio, il ‘magnifico’ film di Caio... Ma il talk non è questo. Il talk è la vita, non la promozione”. Quali talk le capita di guardare? “Guardo Del Debbio, talvolta la Palombelli, la Gentili... Mentana per la guerra. E siamo lì”. Quello che le piace di meno? “Mai farsi nemici gratis. Posso però permettermi di dare un consiglio ai miei amici conduttori”. Prego. “Il talk non è talk se segui pedissequamente una sceneggiatura. Le domande, per esempio, si fanno in base alle risposte, si ascolta, non si va lì con dieci domande pronte da sparare comunque, qualsiasi cosa accada”. Sta parlando di Bianca Berlinguer? “Dico in generale”. Questione di tecnica. “Guardi, non si inventa nulla. Basta copiare da quelli bravi. L’orchestra al Costanzo Show ce la misi dopo essere stato da Letterman a New York”.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.