L'ultimo Montalbano

Totò Rizzo

Per anni è stato il commissario più amato e più seguito dai telespettatori. Ma ora, dalla scrittura alla regia, si avverte la mancanza di Camilleri

Secondo la vulgata – anche quella di Vigata probabilmente – così come non ci sono più le mezze stagioni, non c’è più il Commissario Montalbano. Quello della tv, almeno. Poiché quello dei libri, nelle eleganti copertine blu di Sellerio, quello che ha fatto la fortuna di un intellettuale già vegliardo e fino ad allora piuttosto schivo e di una casa editrice di belle scelte e buone vendite ma comunque considerata fino a quell’esplosivo successo commerciale un po’ esclusiva, quello no, non si tocca. Quel Montalbano di carta stampata vive e lotta insieme a noi. E continuerà a vivere e lottare chissà per quanto, nonostante il suo burattinaio sia passato a miglior vita l’estate scorsa. No, quello che ci ha traditi, per così dire, è il Montalbano icona del piccolo schermo, quello che ha regalato fortune aggiuntive al suo autore e al suo editore, e creato quella di Palomar di Carlo degli Esposti che ha creduto nel progetto vent’anni fa e lo ha tradotto in fiction televisiva, e di Rai Uno che, mutati tempi, governi, partiti di riferimento, presidenti, consigli d’amministrazione, direttori di rete e quant’altro lo ha venduto in mezzo mondo dal 1999, stagione della prima messa in onda.

 

Stavolta il Salvo Montalbano trasfigurato nelle carni brunite di Luca Zingaretti ha deluso perfino gli aficionados più accaniti, gli onnipresenti davanti alla tv per ogni debutto ma anche per ogni replica, le groupies zingarettiane (d’accordo solo sulla buona tenuta del fisico del Nostro durante le nuotate dell’alba e del tramonto), i feticisti accalappiati dall’astuto grand tour sui luoghi siciliani del set: tutti hanno abbozzato mezze smorfie. Non proprio un’abiura, per carità, ma una disillusione amara, da mezza crisi di coscienza. A dispetto anche dei numeri che sono stati altisonanti, come sempre, e che hanno fatto gongolare gli inserzionisti e la Rai: lunedì 9 marzo, sera del debutto del primo dei due nuovi episodi, solo Giuseppe Conte ha saputo fare meglio del commissario – 10,7 milioni del premier contro i 9,4 del poliziotto – e probabilmente da quei quasi 11 milioni che “Giuseppi” ha consegnato brevi manu a Salvo si è scivolati ai quasi 9 e mezzo perché in molti erano già scappati a svuotare gli scaffali dei supermercati dopo il “tutti a casa”; il lunedì successivo, 16 marzo, altre fanfare in viale Mazzini con 9 milioni e mezzo stavolta tondi e comunque, in tutti e due i casi, uno share tra il 33 e il 39 per cento che, con i tempi che corrono, ha del miracoloso.

  


Stavolta il Salvo Montalbano trasfigurato nelle carni brunite di Luca Zingaretti ha deluso perfino gli aficionados più accaniti. E’ come se tutto si fosse slargato già a partire dalla scrittura, amplificato nella caratterizzazione, esasperato nei personaggi


 

E comunque, cos’è che non ha funzionato in questo doppio addio alle scene? L’impresa, questa volta, non era affatto facile in partenza poiché su tutto aleggiava il peso del “post mortem”: passati a miglior vita in breve tempo il Creatore Andrea Camilleri, il Metteur en Scene Alberto Sironi e lo scenografo Luciano Ricceri.

  

Non era facile insomma: un po’ perché Camilleri, pur con grandissima discrezione, era stato una presenza vigile su quel suo personaggio affidato dai produttori a un attore che lui vent’anni fa non s’era nemmeno immaginato potesse incarnarlo, il suo commissario, ma comunque uno che era stato un suo buon allievo all’Accademia d’Arte Drammatica; un po’ perché Sironi aveva creato un linguaggio filmico che era una citazione più letteraria che cinematografica, più metaforica che realista dove tutto era sul limite, sulla soglia, la tragedia non era mai tragedia tout court, il grottesco non era mai sovraccarico, la macchietta non diventava mai macchietta, la pasta al forno, pur passando dalla teglia al piatto, restava una categoria dello spirito e così il fritto di pesce o gli arancini (per dirla alla Camilleri, nella dizione giurgintana); un po’ perché Ricceri, quegli interni, li aveva ispirati sì a una provincia che evocava un tempo antico ma senza troppo uso di nostalgia, vecchie madie riadattate, copriletti di fiandra, maioliche, tende ricamate e mantovane austere, ma anche in quel caso era tutto “citato”, mica c’era solo il gusto d’arredare stanze o far spostare trumeau su cui piazzare un paio di soprammobili da marchès aux puces.

 

Stavolta, invece è come se tutto si fosse slargato già a partire dalla scrittura, amplificato nella caratterizzazione, esasperato nei personaggi ma appiattito nelle loro psicologie, sottolineato negli stessi arredi. Già la scelta degli originali non era felicissima: “Salvo amato, Livia mia” ha un impianto epistolare, vai un po’ a renderlo televisione; “La rete di protezione” non è poi tra le invenzioni più felici del ciclo montalbaniano, c’è un ingorgo di temi e personaggi, c’è quasi una difficoltà a rintracciare la storia principale e a metterla al centro di quelle satelliti, c’è un gioco di matrioske difficilmente incastrabili in un copione. Troppa gente, troppe storie, troppi temi a latere: che fosse la sempre gettonata omosessualità, pur in un non dichiarato rapporto omofilo tra la vittima e la sua collega d’ufficio, oppure il bullismo scolastico con una strana appendice di terrorismo via web, o ancora la parentesi boccaccesca del vicecommissario e della avvenente attrice straniera sul set arrivato in paese. Parentesi su parentesi, aperte e chiuse, riaperte e poi richiuse spesso con un unico escamotage televisivo, lo squillo di un cellulare e una voce che riconduceva alla storia principale e poi ancora un altro squillo, un’altra voce e si ripassava alla storia secondaria, ma non necessariamente accessoria, spesso malamente collegata.

 

Insomma, primo errore, un errore di scrittura. Perché Camilleri non arzigogolava, non girava intorno, non allungava il caffè con l’acqua calda. Qui invece Francesco Bruni, Salvatore De Mola, Leonardo Marini e la fedelissima Valentina Alferj era come se giocassero d’accumulo, a una superfetazione narrativa, un ciofecamento di situazioni, di personaggi, di dialoghi di cui non si capiva il motivo tanto che della matassa spesso si perdeva il bandolo.

 

Per fare un esempio, il più semplice, di sceneggiatura: in “Salvo amato, Livia mia” la meritoria attività sociale della vittima – l’assistenza a bambini immigrati – veniva lodata da una collega della vittima stessa davanti al commissario e poi nuovamente acclamata dalla fidanzata del commissario stesso ma nella scena appena successiva, una ripetizione, insomma, che alle orecchie risuonava con un certo clangore.

  

Altro esempio, più difficile da decrittare, altro errore sempre di (ri)scrittura ma questa volta di impianto, di soggetto. Ne “La rete di protezione” i temi (già troppi sulle pagine Sellerio) si rimescolano, non si capisce più quale tra questi sia il principale, il più interessante: se il “cold case”, una storia degli anni Sessanta, sullo strano suicidio del fratello gemello di un ricco possidente; la bullizzazione di un ragazzino, compagno di scuola del figlio del vicecommissario Mimì Augello, con la poco credibile irruzione armata paraterroristica nella classe durante una lezione; l’erotica gita in barca dello stesso Mimì con un’attrice svedese capitata in paese sul set di un film che scatena gelosie che manco in un film di Pietro Germi (proprio quel set, allestito per un film d’epoca, è invece quello da cui Camilleri fa partire tutto). In Sicilia si direbbe “un tràsi e nièsci” che ci vuol testa a stargli dietro. Camilleri risolve tutto, o quasi, in letteratura. La tv lo complica.

 


Forse il problema è stato quello di spremere dal commissario dei libri oltre quanto fosse già stato spremuto dal 1999 in poi. In Sicilia si direbbe “un tràsi e nièsci” che ci vuol testa a stargli dietro. Camilleri risolve tutto in letteratura. La tv lo complica


 

Lo stesso discorso vale per la regia che Luca Zingaretti ha voluto firmare in coppia con Alberto Sironi che ha frequentato il set già malato e poi è stato costretto ad abbandonarlo. Laddove Sironi giocava per ironica, ammiccante citazione della provincia siciliana, come a volersi sottrarre alle facili lusinghe di retorica, luogo comune, folclore che quell’universo ha offerto per decenni, qui c’era invece come la preoccupazione di evidenziare, sottolineare, circostanziare, attraverso una folla di personaggi principali e minori, una vocazione a far coro senza che un solista venisse fuori. Forse preoccupato dal riprendere e dal riprendersi, Zingaretti (Montalbano forever, in ogni caso) è come se avesse dedicato minor cura al proprio personaggio, è andato, come dire? un po’ in automatico, tra pause, sguardi, piccole o grandi intemperanze, accigliamenti e sorrisi senza concedere quel che ad un personaggio del genere, specialmente dopo due decenni, si regala amorevolmente, specie un attore come lui che di misura ha sempre fatto virtù.

 

Idem per le scene e l’arredamento che Simona Garotta ha creato sul vecchio impianto di Ricceri, ma pure in questo caso si sentiva una tensione più all’arricchire che allo sbozzare, a sovraccaricare per circostanziare.

  

Forse il problema del Montalbano “post” è stato quello di spremere da Camilleri e dal suo commissario oltre quanto fosse già stato spremuto dal 1999 in poi. Come se da quella polpa si potesse ricavare ancora succo. Ma Camilleri e Montalbano ci hanno già regalato tutto quello che potevano, un mondo che è stato un po’ una “magarìa”, un palcoscenico di fascino autocelebrativo dell’isola, uno specchio in cui anche i siciliani si sono riconosciuti spesso assolvendosi di certi loro inguaribili, inestirpabili difetti. Invece stavolta è come se al mondo del commissario qualcuno avesse voluto dare gli estrogeni, lo avesse, per richiamo di Auditel, fatto ingrassare fino alla bulimia, all’obesità. Un po’ banalizzandolo.

  

Bisognava semplicemente essere onesti, coltivare la stessa onestà intellettuale che fu dell’autore: Montalbano gli piaceva ancora, ancora lo intenerivano le quotidiane mollezze di quell’uomo di forte apparenza sociale, insomma il commissario era come un figlio per Camilleri ma si ebbe l’impressione che su quel farsi tramonto definitivo degli anni e degli occhi, altre cose attirassero l’Empedoclino, altri orizzonti intrigassero Nené, ’u Marinìsi: quella saggezza da avo che trasmette brevi riflessioni ora etiche ora morali alle future generazioni domestiche che non potranno più abbeverarsi della sua parola diretta, alla testimonianza della sua voce nicotinica, un po’ nonno e un po’ demagogo, quel farsi oracolo contemporaneo, ruolo che gli appiopparono ma che a lui comunque anche per una certa vanità non dispiaceva (vanità innocente, come ogni senile debolezza), quell’incarnarsi in Tiresia (fu la sua ultima, clamorosa apparizione pubblica al teatro greco di Siracusa di fronte a cinquemila persone d’attonita dipendenza). Altro, insomma. Anche per questo, intestardirsi ancora col commissario in tv sarebbe forse un accanimento ingiusto, da far torto a quello che s’è accreditato nel corso di decenni come un classico in letteratura e nell’intrattenimento popolare della fiction. Sarebbe meglio salutarlo così, Montalbano, senza più scomodarlo se non dagli scaffali delle nostre librerie, non aggiungere altro al già letto e al già visto soprattutto se quest’altro ha la vacua superbia dell’orpello. Salvate il soldato Montalbano che amava (e ama) solo cannoli di ricotta freschissima e di scorza croccante.