(foto Ap)

Il dibattito

Il popolo americano contro gli algoritmi dei social (ma disinnescarli è dura)

Giorgio Caravale

Il cortocircuito fra censura e fragilità dei più giovani, riacceso dalle audizioni dei ceo di Meta, TikTok, Snapchat, X e Discord al Senato statunitense

Due giorni fa i ceo dei principali social network (Meta, TikTok, Snapchat, X e Discord) sono stati ascoltati dai membri della commissione Giustizia del Senato americano intenti a promuovere un progetto di legge volto a responsabilizzare le società private per il materiale pubblicato sulle piattaforme di loro proprietà. Non era un  tribunale ma poco ci mancava. Il pubblico era composto per lo più da famiglie americane che, scortate dai loro avvocati, brandivano come armi contundenti le foto di giovani vittime cadute sotto i colpi di un uso incontrollato dei social. Il tasso di suicidio tra gli adolescenti è in costante aumento, c’è chi parla, non solo negli Stati Uniti, di una emergenza sociale. Disturbi alimentari, disagi mentali, crisi depressive sono ormai all’ordine del giorno in quella fascia d’età e il sogno di libertà raccontato da Internet si sta trasformando secondo molti in un grande incubo. I social, questa la violentissima accusa, non farebbero altro che sfruttare le debolezze dei giovani, acuendo il loro senso di inadeguatezza piuttosto che lenirlo. Mark Zuckerberg e compagni si sono difesi ricordando gli enormi sforzi fatti, anche in termini di investimenti economici, per proteggere i giovani utenti da contenuti potenzialmente offensivi.

 

Le piattaforme social hanno in effetti iniziato molto presto a esercitare il loro diritto di censura. Ciascuna di esse è dotata di un dettagliato regolamento che norma ciò che si può e non si può scrivere, postare, raffigurare. X (già Twitter) per esempio proibisce qualsiasi forma di esaltazione della violenza, incluso naturalmente il terrorismo, lo sfruttamento minorile, ma anche qualsiasi molestia perseguita sulla base di razza, etnia, origine nazionale, identità di genere, orientamento sessuale, religione, ceto, età, disabilità o grave malattia. TikTok, ma anche Instagram, hanno una censura molto più rigida in materia sessuale volta a proteggere gli utenti da contenuti relativi ad abusi sessuali o altri pericoli. Si sono insomma dotati di raffinati strumenti tecnologici dietro ai quali operano armate di invisibili censori il cui compito è proprio quello di intercettare e bloccare contenuti video che rilanciano immagini o messaggi ritenuti sconvenienti. Chi infrange queste regole viene sanzionato con la sospensione dell’account, o più semplicemente con la cancellazione del post. Tutto questo, a quanto pare, non basta. Il caso di Molly, una ragazza inglese di 14 anni che si è tolta la vita nel 2017, ha acceso i riflettori sul tema dell’autolesionismo e del suicidio legati all’uso dei social, ne ha parlato recentemente una bella puntata di “Presa diretta”, ideata da Lisa Iotti e Irene Sicurella (“La scatola nera”).

 

La soglia di attenzione si è alzata dopo quella tragica morte ma come ogni forma di censura ha stimolato a sua volta l’invenzione di stratagemmi sempre più raffinati da parte degli utenti per aggirare le misure repressive stesse. Si proibiscono hashtag come #anoressia, gli utenti iniziano a utilizzarne varianti come #anorexia o #@noressia. Si censurano video in cui compaiono segni di autolesionismo, gli utenti aggiungono un finale nel quale accennano al loro, presunto o reale che sia, percorso di redenzione, questo invece permesso, anzi incentivato dalle piattaforme. Il problema dunque non è tanto quello di scegliere tra la libertà di esprimersi o il diritto di censurare, se adottare o meno misure drastiche come quella appena varata dal governo della Florida che ha proibito l’accesso alle piattaforme ai minori di 17 anni, quanto quello di smontare i meccanismi di dipendenza messi in moto dai motori di raccomandazione, i famosi algoritmi, che fanno leva su una sempre più stupefacente capacità di individuare le vulnerabilità dei singoli utenti. Più visualizzazioni significano più pubblicità e più introiti. Per cui da una parte si censurano i video che istigano al suicido, dall’altro se ne favorisce la circolazione sfruttando il meccanismo imitativo, particolarmente forte e di successo tra i giovani. Nell’attesa, vana direbbe qualcuno, che i ceo dei social network sciolgano questo inestricabile conflitto d’interessi, i governi nazionali e le istituzioni sovranazionali proveranno a imporre un quadro normativo sempre più stringente a tutela dei giovani utenti. A noi adulti, impegnati a gestire le nostre personali forme di dipendenza dai social, il compito di sfruttare al meglio i sistemi di controllo parentale messi a disposizione dalle piattaforme per vestire un ruolo scomodo – quello di censori di noi stessi e dei nostri figli – cui tutti faremmo volentieri a meno.

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