Foto di Milan Malkomes su Unsplash 

I pericoli

Un libro su Clearview AI mostra i rischi della corsa all'oro nelle intelligenze artificiali

Pietro Minto

La giornalista del New York Times, Kashmir Hill, racconta la storia dell'azienda che si occupa di riconoscimento facciale e il ruolo di Big Tech

Clearview AI è una società che si occupa di riconoscimento facciale, uno degli ambiti più discussi del settore delle intelligenze artificiali. Funziona così: l’utente carica la foto di qualcuno, Clearview lo riconosce (non sempre, ma molto spesso) e mostra tutte le altre immagini in cui la persona compare nel web. O meglio, da un pezzo di web che Clearview ha archiviato, creando una banca dati da trenta miliardi di immagini

A raccontare la storia di Clearview AI è Kashmir Hill, giornalista del New York Times che da tempo si occupa di un’azienda di cui ancora si sa poco, a parte il fatto che tra i suoi investitori ci sarebbe Peter Thiel, l’eminenza grigia della Silicon Valley. Lo ha fatto in un libro appena uscito negli Stati Uniti (“Your Face Belongs to Us: A Secretive Startup’s Quest to End Privacy as We Know It”, Penguin Random House), in cui racconta anche l’inizio di questa storia, quando venne a sapere di un servizio che veniva utilizzato da alcuni poliziotti per il riconoscimento facciale. Per testarne l’efficacia, la giornalista chiese ad alcune persone di usare una sua foto ma la ricerca non dava risultati. A un certo punto, uno dei detective da lei sentiti disse di aver ricevuto una telefonata da Clearview AI in cui chiedevano conto della foto di Hill. Poco dopo il suo account fu cancellato. L’azienda sembrava quindi intenzionata a rimanere nell’ombra, tenendo lontano i giornalisti e chiunque potesse svelarne il funzionamento e l’efficacia. Clearview non si limitava a riconoscere le facce di sconosciuti ma controllava anche quali persone venivano identificate.

Sembra una storia da film in cui un’azienda futuristica sviluppa in laboratorio una tecnologia avanzatissima e va fermata. La realtà è però differente: il riconoscimento facciale è un campo di studi florido da tempo, che interessa il settore della difesa ma anche quello del retail, per esempio esempio, con le grandi catene che lo utilizzano per fermare i furti in negozio. Di conseguenza, gli investimenti in tecnologie simili sono in corso da molti anni. Già nel 2011 un ingegnere di Google rivelò al mondo che l’azienda stava lavorando a un software in grado di pescare dal web tutte le foto di una persona a partire da un singolo scatto; qualche mese dopo, il presidente di Google dell’epoca, Eric Schmidt, confessò che l’azienda aveva sviluppato una tecnologia simile ma aveva deciso di tenerla segreta. “Da quel che so – aggiunse – questa è l’unica cosa che Google ha costruito e, dopo averla studiata, ha deciso di fermarsi”.

 

La responsabilità dei “grandi”


Google non fu l’unico gigante a farlo. Anche Facebook, nel 2017, sviluppò un sistema in grado di riconoscere le persone: consisteva di una fotocamera montata su un cappello e stupì abbastanza i partecipanti alla demo da convincerli a fermarne lo sviluppo. L’idea era di presentarlo come un prodotto rivoluzionario per le persone non vedenti ma i possibili abusi erano troppi per proseguire, anche perché appena due anni prima Facebook aveva perso 650 milioni di dollari in una causa legata proprio alla privacy dei suoi utenti. Un po’ per convenienza, un po’ per una qualche forma di moralità, quindi, i due giganti decisero che il riconoscimento facciale rappresentava rischi troppo grandi, e passarono ad altro. Da allora sono state le realtà più piccole, come la citata Clearview AI o servizi come PimEyes, a puntare sul settore, a conferma di come la corsa alle IA sia trainata da tempo non dai famigerati titani della Silicon Valley ma da realtà minori. Startup spesso sconosciute che compaiono dal nulla e decidono di proporre tecnologie che da tempo riposano nel solaio di Meta, Google e simili.

E’ proprio quello che è successo a OpenAI, produttrice di DALL-E e ChatGPT, prodotti senza dubbio rivoluzionari ma non di certo fuori dalla portata di realtà come Google o Meta. A fare la differenza fu la decisione di Sam Altman, il fondatore, che volle dare prova delle capacità dell’azienda (anche per cercare nuovi investimenti), finendo per dare vita a una caccia all’oro che produce ogni giorno una nuova realtà “indipendente” che si muove nel settore delle IA senza remore o timore di essere fatto a pezzi dall’Antitrust. A differenza dei giganti del Big Tech, che ora però si sentono costretti a inseguire.