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Chi ha paura di Mister X?

Maurizio Crippa

La bizzarra idea di Elon Musk di cambiare nome a Twitter e il conseguente spavento ideologico, che è ancora più insensato

Chi ha paura di Mister X?, tanto per citare il film d’esordio di un altro immigrato di talento dalle origini composite e dal genio disruptive. Le possibilità che Elon Reeve Musk, secondo Forbes al luglio 2023 la persona più ricca del mondo, abbia fatto una cazzata costosa e autolesionista decidendo di cambiare intestazione della ditta, logo e brand del famoso social network di sua proprietà (sottolineiamo sua, tanto per cominciare) sono molte. Non mancano gli indizi che togliere l’uccellino celestino che fa tweet, dunque il Twitter, e metterci una X più in grado di evocare il due di bastoni delle carte bergamasche che l’Incognita Suprema, la barriera elastica che secondo il fisico Francesco Severi si oppone alla nostra conoscenza dei confini dell’universo, sia stato un azzardo poco comprensibile. Un “rebranding radicale”, anzi un “annuncio scioccante” con la foto della sede di Twitter dominata da una nuova X gigante.

Molta gente comune o importante, persino Paul Krugman sul New York Times, l’ha presa male. E non solo per mera analisi economica. Krugman ha scritto: “I marchi che per un motivo o per l’altro godono della fiducia dei consumatori hanno per l’azienda che li possiede un valore reale, e non andrebbero cambiati a cuor leggero”. Il che è vero. “Detto questo – si chiede – cosa ha indotto Elon Musk, proprietario di Tafkat (The App Formerly Known As Twitter), a cambiare nome della piattaforma in X, abbinandole un nuovo logo che molti, me compreso, trovano inquietante?”. Detto questo, chiediamo modestamente a Krugman, che valore o senso ha quell’“inquietante”? Le analisi economiche possono essere esatte (si vedrà). Ma c’è qualcosa di poco comprensibile, più vicino a una sociologia malata o a un impersonale pensiero unico da social media, nella reazione un po’ isterica, pavloviana, di migliaia di utenti del social di proprietà di Musk: sono spaventati di fronte alla ineffabile, nascosta (ma sicura, eh) “minaccia” contenuta in quella X “inquietante”.

Per citarne qualcuno a caso: c’è chi si rivolge come un naufrago alle "persone che seguo su Twitter (a me ancora appare l’uccellino, poi chissenefrega cosa accadrà)”. Altre che twittano, o come si dirà adesso: “Comunque, triste è triste”. C’è gente che fa resistenza umana e si fotografa col vecchio logo. Che esprime “desolazione”. I più acuti evocano la “flottiglia X Mas”, persone di buon gusto sentenziano: “Che uomo di cattivo gusto”. Superstiziosi: “Un simbolo iettatorio”. Ecco un commento illuminante: “Ho appena fatto in tempo a fotografarti sullo schermo del cellulare, ieri sera. Da stamani la minacciosa X è lì al tuo posto. Maledetto Elon”. Maledetto. Che cosa ci sia di inquietante, difficile dire. Certo, è noto che Musk abbia un’ossessione per i simboli e per quel simbolo in particolare. Ognuno ha le sue, persino Krugman ha i suoi demoni non domati, sembra di capire: “Musk ha buttato tutto ciò alle ortiche a favore di X: un nome dal suono duro, che non ha alcun riferimento con le attività della piattaforma… Molti utilizzatori di Tafkat si sono detti imbarazzati dal logo, perché dà loro l’impressione di trovarsi su un sito porno. La mia reazione è stata invece diversa: per me, e di certo per altri, il nuovo logo fa pensare a un simbolo autoritario, come la ‘Z’ dei russi che hanno invaso l’Ucraina, o a qualche altro riferimento storico che sono certo vi verrà alla mente”. E qui l’economia slitta verso l’esoterismo puro anche più che nelle visionarie follie di Elon Musk. 

Come ha spiegato qualche tempo fa Pietro Minto sul Foglio, i comportamenti di Musk sono spesso imperscrutabili e il Wall Street Journal ha segnalato che “fa uso di ketamina” (se l’avesse detto Gasparri, apriti cielo). Ma a Musk piace la lettera X. X non è la prima azienda che battezza così: la prima si chiamava X.com, era una banca online da cui sarebbe nata PayPal. Poi SpaceX, infine ha ricomprato il vecchio dominio del sito X.com. Per farne che cosa? Lo scopo dichiarato è “trasformare il social in una ‘super app’, un servizio come la cinese WeChat, con cui è possibile fare tutto: leggere notizie, pubblicare foto, pagare le tasse, prenotare il dottore”. Che ci riesca non è detto, che non possa provarci è un’altra faccenda.  “X ci connetterà tutti in modi che stiamo solo cominciando a immaginare”, ha detto profetico. E ancora: “Non ci sono assolutamente limiti a questa trasformazione. X sarà la piattaforma che potrà fare, beh… tutto”.

Potrebbe andare male: non lo avevano detto anche di PayPal, e di Tesla? Ma da qui a “maledetto Elon” e persino ai rimandi iconografici di Krugman il passo è lungo. E non regge davanti a un passaggio: la piattaforma è sua, volesse distruggerla è libero di farlo. E’ probabile che non abbia ben chiaro che cosa sia il suo costoso giocattolo, del resto anche la spunta blu è stata un fiasco tecnico e d’immagine. E’ stata letta come una manovra trumpiana, ma se anche lo fosse? Si può passare a TikTok, o su Threads, no?

Forse la X rimanda, con la sua secchezza affilata, al mondo delle armi, a un lettering manesco da Trono di spade. Ma poi? Gli emblemi – termine antico e araldico per ciò che oggi chiamiamo loghi o brand – sono una “straordinaria macchina visionaria, serissima e giocosa insieme”, scrive il filologo e studioso di iconografia Mino Gabriele nella sua dottissima introduzione a Il libro degli emblemi dell’umanista milanese Andrea Alciato (Adelphi). Parola e immagine sono un “nodo sapiente”, spiega, “così, attraverso queste rappresentazioni mentali, come in uno specchio, l’intelletto vede dipanarsi il senso dei suoi discorsi per poi proporli e comunicarli all’altro da sé. L’immagine dunque e poi la parola, due realtà espressive relazionate tra loro grazie a un nodo sapiente che ne regola l’intreccio… Verba e imagines ostentano alte congetture o semplici elucubrazioni”. 

Di tutto questo, gli ossessivi critici di Musk ignorano il gioco e la visionarietà. In fondo la X di Elon è la croce di Sant’Andrea,  non si porta dietro una storia chissà quanto luttuosa. Il Grande Dittatore ha nello stemma due X (in araldica sarebbero due “crocette di Sant’Andrea”) e più che minacciose nel film di Chaplin sono parodistiche. Il riferimento è forse noto a qualche agée, ma è probabile che la Z generation – quella che per la disperazione cinéphile di Elvira Serra a spasso per il lago di Como non sa che Hitchcock girò un film giovanile a Nesso – non lo abbia mai visto, Il Grande Dittatore. Al massimo “X-Factor”. Dunque perché? E’ evidente che l’idiosincrasia simbolica – c’è chi considera il “maiuscolo” come “codice stilistico narrativo dell’estrema destra” – è solo l’epifonema del problema.

Non piace, di Musk, non la X ma il trattamento (maltrattamento?) che fa del social di sua proprietà. Quando spese un sacco di quattrini per comprarlo in molti dissero che era un attentato alla democrazia, addirittura. E’ vero che le idee confuse non gli mancano, voleva fare un posto di libertà, con meno regole censorie, e iniziò licenziando ed escludendo. 

Ma, innanzitutto, è un’azienda privata e tutti si sono (ci siamo) fatti trasportare per anni come su un taxi gratuito. Ed è giusto che si chieda ai tassisti il Pos e il pagamento delle tasse, ma come poi gestiscano la propria attività, è affare loro: nel caso prenderemo Uber. Ma pare che la stessa libertà di mercato per Musk non valga. Invece quando il suo miglior nemico Zuckerberg buttava soldi a palate per quella improbabile idea del Metaverso, tutti reverenti e muti. Poi il grande scandalo morale, avere riammesso Trump: del resto non è mai stato molto chiaro in base a quali leggi liberali lo avessero escluso da una piattaforma privata. E non viene mai ricordato che ai tempi dell’elezione di Trump, della Brexit e di altri disastri populisti, i social che allegramente vi contribuirono erano nelle mani di altri.  

Se un network sia solo un taxi, o una linea telefonica, o abbia invece responsabilità per i contenuti che veicola, è dibattito che dura da anni.

Mark Zuckerberg è stato perdonato per lo scandalo di Cambridge Analytica; anni fa i regolatori dell’informazione si limitavano a dire che qualche correttivo agli algoritmi sarebbe bastato per far scoppiare le bolle tossiche (un po’ come si dice oggi per la IA), ma ora che Elon Musk ha deciso di shakerare i meccanismi del suo social, tutti rivogliono la loro bolla. Perché il rischio valga solo per Mister X, non si comprende.

Così fanno un po’ ridere i piagnucolosi annunci di addii e traslochi (Mastodon, chi era costui?). Siamo sempre ai tempi di Umberto Eco che emigrava a Parigi perché c’era Berlusconi o di Lidia Ravera in esilio a Stromboli. C’è anche Threads, il nuovo Twitter di Zuckerberg: che aspettano gli spaventati della X?

Il problema ovviamente non è la X, è proprio Elon Musk (non il Musk in sé, ma il Musk in loro, verrebbe da dire). Il miliardario che vorrebbe colonizzare lo spazio è detestato per le sue idee, per quel che è. E’ dai tempi della “mafia di PayPal” che lui e i suoi primi compagni d’avventura si portano dietro i sospetti di rapacità, destrismo, razzismo e di tutti i più recenti peccati capitali della bibbia liberal. Musk li ha sempre ricambiati chiamandoli “gli enormi cretini che saltano su ogni causa sociale del giorno”. Non è antivaccinista, ma gli è bastato accennare ai rischi di “erosione della libertà” per essere additato come leader dei No vax. Non è abortista, e questo proprio non si può fare; è molto preoccupato per la crisi demografica, ha osato dirlo anche a quel paese per vecchi che è l’Italia, e mal gliene incolse. Le pulsioni sperimentali transumaniste della Silicon Valley passano di solito sotto silenzio, a meno che non siano Neuralink o OpenAI, allora l’allarme-Musk subito suona. Eppure con il ceo di Apple Steve Wozniak e il filosofo Yuval Noah Harari è stato il promotore della lettera per chiedere una moratoria (“Pause Giant AI Experiments”) sull’Intelligenza artificiale. Il grande Werner Herzog l’ha incontrato per il suo docufilm Lo and Behold, se n’è fatta l’idea di un visionario con idee pericolose ad esempio sullo spazio. Ma siccome Herzog è un umanista vero, gli ha chiesto cosa sogna. Lui ha guardato il vuoto, poi gli ha risposto che i soli sogni che si ricorda sono gli incubi. Più di tutte le sue idee visionarie, i soldi e i progetti, è come se il pubblico fosse attratto da questo suo insondabile dark side, la sua X oscura. Non sapendo decifrarla, si fa prima a criticarlo per tutto il resto. Non pagherei per un viaggio privato sulla Luna, ma che Musk sia criticato perché lavora all’impresa senza stare ad aspettare le concessioni della Nasa o delle geopolitiche aerospaziali, è assurdo.

Più o meno lo stesso è accaduto con Tesla e soprattutto “l’immagine di Tesla” (un noto giornalista italiano lo definì “un trafficante di sogni”). Difficile negare che sia stata la scommessa più ardita e green nella storia dell’automotive. E che sia stata vinta. Ma al momento della dura crisi del 2022, determinata anche da assurde sbandate finanziarie, tra cui l’acquisto per 44 miliardi di Twitter, la danse macabre attorno al presunto cadavere della sua auto elettrica è stata una specie di festa di carnevale. Io, come il Buffalo Bill di De Gregori, ho un amico famoso meccanico (anzi sono due, Crescenzo e Franco) e ogni tanto ci sediamo sul ciglio di una strada lunga a contemplare l’America: diminuzione dei diesel, aumento dell’ottimismo.

Mi spiegano il futuro delle auto elettriche, con la loro conoscenza pratica di bolidi e macchinoni. Mi spiegano che, al momento, Tesla è ancora l’unica macchina elettrica che funzioni davvero, le altre inseguono ma scaricano le batterie dopo poca strada. Non hanno la stessa tecnologia, né capacità di rete. Il vantaggio competitivo di Tesla si ridurrà, spiegano, ma non ora, non ancora. Eppure Tesla per molti non è un’azienda innovativa ma un fenomeno finanziario-speculativo. Quando dopo il Covid Musk emanò via mail un editto perché i white collar tornassero a lavorare in presenza – a bordo, cazzo! – gli diedero invece del passatista e fascista. In realtà stava solo dicendo una delle sue ruvide verità di buon senso: che per far funzionare un’azienda che è un trust di idee e di persone bisogna per prima cosa passare il tempo di lavoro insieme. Anche aver trasferito Tesla dalla California al repubblicanissimo Texas, la nuova terra promessa di tutti quelli che non ne possono più del dirigismo green e del clima woke, è un altro marchio d’infamia. E’ un innovatore, un anarchico libertario e conservatore contro il fisco invadente. Quando Bernie Sanders disse “dobbiamo esigere che i più ricchi paghino la loro giusta quota, punto”, gli rispose: “Continuo a dimenticare che sei ancora vivo”. Difficile che uno così piaccia a tutti, e il pensiero collettivo trova molto comodo dipingerlo come un personaggio inquietante, troppo ricco e troppo tutto. Gli piace persino Tolkien, insomma un mostro. Ma la X, un semplice e innocuo simbolo per un’azienda che è sua, a chi fa paura, precisamente?

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"