Foto LaPresse

Contro i cialtroni della rete

Eugenio Cau

La grande balla della neutralità, le prime battaglie contro la faccia del web, le sculacciate social contro Trump, la fine del principio dell’uno vale uno. Perché la rivoluzione di Twitter può trascinare internet verso un’imprevista fase tre: la stagione della responsabilità. Indagine

Jack Dorsey, il cofondatore e ceo di Twitter, si sveglia tutte le mattine alle cinque. Comincia la sua giornata con l’idroterapia: entra in una vasca ghiacciata a 2 gradi centigradi per tre minuti, poi si butta in una sauna bollente per 15 minuti. Ripete questo ciclo per tre volte. In un’intervista, Dorsey ha detto che non c’è niente che ti dia maggiore “sicurezza mentale” di infilarsi in una vasca ghiacciata. A parte l’idroterapia, Dorsey fa soltanto docce fredde, e dice che per lui sono “meglio della caffeina”. Poi Dorsey medita un’ora intera, e ne mediterà un’altra la sera prima di andare a letto. Non fa colazione. Dorsey va al lavoro a piedi. Da casa sua all’ufficio sono otto chilometri e mezzo, e lui impiega un’ora e un quarto circa a completarli. Quando lavora da casa (lo fa spesso, è un sostenitore del lavoro da remoto e vuole che la sua azienda diventi “diffusa”) usa un’app di fitness per fare cicli di esercizi intensivi della durata di sette minuti ciascuno, in soggiorno. Oltre a non fare colazione, Jack Dorsey non pranza nemmeno. Pratica il digiuno intermittente, che è una teoria secondo cui se mangi molto raramente il tuo corpo si libera meglio dalle tossine, o qualcosa del genere. Dorsey fa soltanto un pasto al giorno – la cena – e soltanto per cinque giorni a settimana. Giovedì sera mangia il suo ultimo pasto della settimana, poi venerdì e sabato digiuna completamente, e infine domenica sera beve un brodino di pollo per riabituare il suo corpo all’assunzione di calorie.

 


 

Jack Dorsey (foto LaPresse) 


 

Sappiamo tutte queste cose perché Jack Dorsey ama molto parlare del suo stile di vita. Nelle interviste, nei podcast e sui social sembra spesso che si trovi più a suo agio a descrivere gli schemi del digiuno intermittente piuttosto che le sue strategie per guidare un’azienda – e questo è un problema, perché di aziende Dorsey ne guida due, oltre a Twitter è ceo anche di Square, che fa pagamenti digitali. Dorsey si porta dietro questa fama da ceo distratto da quasi un decennio, quando, nei primi burrascosi anni di Twitter, i suoi colleghi cofondatori lo cacciarono per qualche anno dall’azienda perché aveva cominciato a fare corsi di cucito e passava più tempo dietro alla confezione di camicie sartoriali che nella sua startup (questo aneddoto viene da “Hatching Twitter”, un libro seminale scritto dal giornalista americano Nick Bilton nel 2013; ancora oggi Dorsey coltiva la sua passione sartoriale, e nelle occasioni formali lo si vede con certe camicie con il collo alla coreana alto alto: se le è disegnate da solo). Questa fama si è mantenuta anche in tempi più recenti: l’anno scorso, dopo un viaggio in Africa, rimase folgorato e promise che avrebbe trascorso la metà del 2020 nel continente, perché “l’Africa definirà il futuro”. Gli investitori di Twitter rimasero così sgomenti che si rischiò l’ammutinamento. Quando, all’inizio dell’anno, il fondo Elliott ha cominciato ad ammassare azioni di Twitter e a mettere in discussione la leadership di Dorsey, una delle condizioni negoziali che gli hanno consentito di mantenere la sua posizione è stata: non ti azzardare a spostarti da San Francisco.

 

Un’altra caratteristica nota di Jack Dorsey è la totale avversione al rischio. E’ una questione personale: è timidissimo, cerebrale, e pondera ogni mossa. Twitter è il ritratto della scarsa audacia del suo creatore: in 14 anni di vita, il social network praticamente non è mai cambiato. Il concetto è sempre lo stesso, l’utilizzo è sempre lo stesso, l’interfaccia grafica non è evoluta granché. Il cambiamento più rivoluzionario è stato allungare i tweet da 140 a 280 caratteri, ma a parte questo Twitter è sempre rimasto quello del 2006.

 

Secondo un conteggio fatto dal Washington Post, dal giorno in cui aveva assunto la sua carica fino all’inizio di aprile di quest’anno Trump ha twittato 3.308 bugie o affermazioni fuorvianti, e Twitter non aveva mai fatto niente.
Poi improvvisamente 
è cambiato qualcosa

E dunque come ha fatto questo ceo che rifugge lo scontro e i riflettori e ama molto meditare a diventare in questi giorni un social justice warrior, il cavaliere bianco dei social network e l’uomo che infine, dopo lungo tentennare, ha fatto la cosa giusta e ha deciso di tenere testa a quel bullo che è il presidente degli Stati Uniti? L’ha fatto un po’ per caso e un po’ grazie a una preparazione durata anni. Ma il risultato, forse inatteso perfino per Dorsey, è che negli ultimi dieci giorni Twitter ha dato il via a quella che potrebbe essere una rivoluzione vera per internet e per i social network, una rivoluzione in cui le piattaforme inaugurano una stagione nuova di responsabilità. Questa responsabilità ancora non sappiamo bene come sarà fatta, non lo sanno nemmeno le piattaforme, e potrebbe avere ricadute politiche e legislative gravi – in parte le sta già avendo. La rivoluzione della responsabilità è anche molto osteggiata, telefonare a casa Zuckerberg per avere qualche informazione a riguardo. Ma forse, perfino suo malgrado, Dorsey ha messo in moto un meccanismo che alla fine, tra qualche anno e dopo molte tribolazioni, potrebbe restituirci dei social network migliori, che non soltanto smettono di essere una minaccia per la democrazia liberale, ma magari diventano perfino un luogo di discussione più civile.

La rivoluzione di Twitter è cominciata con due link e una pecetta. Sembra poco, ma per decidersi a metterli, Twitter ha avuto bisogno di un paio d’anni, di discussioni infinite e della peggiore pandemia in un secolo.  

 

Il 26 maggio scorso, Donald Trump ha sparato due tweet in cui accusava il governatore democratico della California di voler manipolare le elezioni presidenziali di novembre per aver potenziato il servizio di voto via posta. Gli americani votano via posta da decenni, il metodo è considerato molto sicuro da tutti gli esperti, ed è comprensibile che gli stati vogliano evitare assembramenti alle urne in tempo di coronavirus. Ma Trump è convinto che questo penalizzi le sue possibilità di rielezione, e il 26 maggio ha scritto su Twitter che il voto via posta consentirà brogli elettorali e che le elezioni di novembre saranno truccate. In particolare, Trump scrive che il governatore della California manderà a tutti la scheda elettorale via posta, quando invece per riceverla è necessario registrarsi, e questo sembra un tentativo di ridurre la partecipazione elettorale.

 

E’ strano perché, tutto considerato, i due tweet erano stati probabilmente i più innocui della giornata. Poche ore prima, sempre su Twitter, Trump aveva falsamente accusato Joe Scarborough, un famoso conduttore televisivo da lui molto odiato, di aver ucciso la sua assistente nel 2001. L’accusa è palesemente falsa, l’assistente è morta per cause naturali e Scarborough si trovava dall’altra parte degli Stati Uniti quando avvenne il fatto, ma i tweet di Trump erano stati particolarmente crudeli, tanto che il marito della donna quel giorno inviò una lettera accorata a Dorsey chiedendogli di cancellare i tweet che riaccendevano un dolore privato e infangavano il nome di sua moglie – poiché, senza scriverlo esplicitamente, Trump implicava torbidi affari. Insomma, erano questi i tweet presidenziali di cui tutti parlavano il 26 maggio.

 

Dorsey ignora il gran dibattito su Joe Scarborough, lascia intoccati i tweet crudeli di Trump ma fa una mossa a sorpresa: sotto ai due tweet sul voto via posta appaiono un punto esclamativo e una scritta: “Get the facts about mail-in ballots”, “Ecco i fatti sul voto via posta”. Cliccando sul link, appare una pagina messa assieme da Twitter con fonti autorevoli come la Cnn e il Washington Post (due dei “fake media” più odiati da Trump) in cui si spiega che il voto via posta è sicuro e che il presidente fa “dichiarazioni prive di fondamento”.

 

Prima di parlare del finimondo che quei due punti esclamativi hanno scatenato, soffermiamoci un attimo sul fatto che la scelta di Twitter è piuttosto inusuale. Di tante questioni su cui fare polemica con il presidente degli Stati Uniti, perché proprio un’affermazione sul voto via posta che non è del tutto falsificabile? E’ vero, il voto postale è storicamente sicuro, non ci sono mai stati brogli, ma non è impensabile che ce ne siano in futuro. Perché allora esporsi proprio su questo tema? Secondo un conteggio fatto dal Washington Post, inoltre, dal giorno in cui aveva assunto la sua carica fino all’inizio di aprile di quest’anno Trump ha twittato 3.308 bugie o affermazioni fuorvianti, e Twitter non ha mai fatto niente. Su Twitter, Trump ha quasi dichiarato guerra alla Corea del nord. Ha insultato, diffamato, umiliato. Due anni fa ha chiamato “cagna” una sua ex collaboratrice, Omarosa Manigault Newman, e poche ore prima dell’intervento di Twitter aveva accusato di omicidio un uomo innocente. Twitter fino a quel momento non si era mai mosso, anche se gli esperti dicevano che più e più volte Trump aveva violato qualche regola interna del social network. Perché dunque proprio quei due tweet? La ragione immediata riguarda il fatto che sulla manipolazione delle informazioni elettorali Twitter ha delle regole molto chiare a riguardo, e che dunque è facile dimostrare che Trump le ha violate: sentenziare su un’accusa di omicidio, paradossalmente, è più scivoloso. Ma appunto, negli anni Trump ha violato le regole di Twitter centinaia di volte, e dunque la domanda centrale è: perché sanzionarlo proprio adesso? La risposta probabilmente ha a che vedere con il coronavirus.

 

In questi mesi di pandemia mondiale è successo qualcosa di nuovo ai social media. Il loro approccio distaccato nei confronti di tutto quello che succede nel mondo, il loro allontanamento sistematico di tutte le responsabilità, si è infranto contro una malattia che ha colpito e ucciso milioni di persone in tutto il mondo. Era da anni che i social, soprattutto Facebook, Twitter e Youtube, promettevano politiche serie contro le fake news e contro la misinformazione online, annunciando algoritmi eccezionali e sistemi sofisticatissimi di intelligenza artificiale che alla fine non arrivavano mai, o se arrivavano non si comportavano come dovuto. Nonostante il Russiagate, nonostante Cambridge Analytica, nonostante le interferenze dimostrate sui processi elettorali occidentali, i social network hanno sempre cercato di tenersi lontani dalle responsabilità e hanno evitato di combattere per davvero il problema. Lo hanno fatto per business: i post incendiari che provocano odio e divisione sono quelli che creano più engagement, dunque più attenzione degli utenti e più introiti pubblicitari. E lo hanno fatto per opportunismo politico: se colpisci i troll di destra sei condannato dalla destra, se colpisci i troll di sinistra sei condannato dalla sinistra, meglio lasciar perdere. Ma poi, appunto, è arrivato il coronavirus, e tutte le scuse sono cadute: se non agisci con decisione contro le fake news e consenti che si diffondano teorie del complotto, la gente muore. E per la prima volta i social network hanno agito con decisione, superando le linee rosse della moderazione online e non guardando in faccia a nessuno pur di garantire la sicurezza dei loro utenti. Lo sforzo è servito. Le fake news online non sono state eliminate del tutto, certo, ma la loro portata distruttiva è stata ridotta.

 

Questo seme di responsabilità è rimasto addosso a Jack Dorsey, che all’inizio di aprile ha anche annunciato una donazione di un miliardo di dollari per combattere il Covid-19 in tutto il mondo. Certo, dal punto di vista della policy interna, le discussioni attorno a cosa fare dei tweet falsi e pericolosi pubblicati dai leader mondiali andavano avanti almeno da un paio d’anni. A giugno del 2019, Twitter aveva annunciato nuove linee guida in base alle quali avrebbe etichettato come fuorvianti i tweet che violavano le regole senza però cancellarli qualora fossero stati di pubblico interesse. Ma soltanto dopo il coronavirus il social network ha fatto seguito all’annuncio. A fine marzo ha rimosso dapprima un tweet in cui il dittatore venezuelano Nicolás Maduro consigliava rimedi casalinghi farlocchi per liberarsi dal virus, e poi due tweet in cui il presidente brasiliano Jair Bolsonaro minimizzava il pericolo della pandemia e sminuiva l’efficacia delle misure di distanziamento sociale. Due mesi dopo, Twitter si è sentito abbastanza sicuro da decidere che anche Donald Trump doveva rispettare le regole.

 

Era da anni che i social promettevano politiche serie contro le fake news e contro la misinformazione online, annunciando algoritmi eccezionali e sistemi sofisticatissimi di intelligenza artificiale che alla fine non arrivavano mai, o se arrivavano non si comportavano come dovuto

Dopo essersi visto contraddire dai due punti esclamativi di Twitter, Trump è andato su tutte le furie. Ha passato una parte consistente della sua giornata e di quella successiva a dire, ovviamente su Twitter, che il social network aveva minacciato il suo diritto alla libertà d’espressione, che le voci dei conservatori erano soffocate e che, se fosse stato necessario, avrebbe fatto chiudere i social, nella migliore tradizione autocratica. Due giorni dopo, il 28 maggio, la Casa Bianca ha pubblicato un ordine esecutivo del presidente che tenta di minare, con scarsissime basi legali, la libertà dei social media. Su questo torniamo tra poco.

 

Insomma, tra il 26 e il 28 maggio Twitter diventa improvvisamente il social network capace di tenere testa a Donald Trump. Ma tutta la storia si sarebbe sgonfiata nel giro di poco se in quegli stessi giorni non fosse successo qualcosa di molto più grande. Il 25 maggio, a Minneapolis, l’agente di polizia Derek Chauvin uccide l’afroamericano George Floyd tenendogli il ginocchio sul collo con tutto il peso per otto minuti e quarantasei secondi, mentre questi, già immobilizzato, rantolava e diceva di non riuscire a respirare. Chauvin gli tiene il ginocchio sul collo per quasi tre minuti dopo che Floyd smette di reagire, e rimane inerte. Il video atroce dell’uccisione di Floyd è diffuso su Facebook, per intero. Il giorno dopo l’omicidio, il 26 maggio, cominciano le proteste contro il razzismo a Minneapolis, presto le proteste si diffondono in centinaia di città. Alla fine di maggio ci sono rivolte violente in tutta l’America, con scontri tra manifestanti e polizia, saccheggi notturni, violenze sui giornalisti da parte delle forze dell’ordine, decine di morti, centinaia di feriti, migliaia di arresti e il paese sconvolto.

 

Donald Trump, ovviamente, si mette su Twitter, e anziché cercare di alleviare le ferite e unire il paese alza il livello dello scontro. Il 29 maggio scrive che i manifestanti a Minneapolis e nelle altre città non sono altro che teppisti, e che è pronto a mobilitare l’esercito contro di loro. Poi aggiunge: “When the looting starts, the shooting starts”, “quando cominciano i saccheggi, si comincia a sparare”, che è una citazione del capo della polizia di Miami negli anni Sessanta, famoso per le sue strategie violente e apertamente razziste. Ed è in questo momento che Twitter si trova nell’intersezione perfetta della storia: interviene di nuovo, e questa volta copre il tweet di Trump, mettendogli davanti una scritta che in italiano dice: “Questo Tweet ha violato le Regole di Twitter sull’esaltazione della violenza. Tuttavia, abbiamo deciso di non oscurarlo poiché potrebbe essere di pubblico interesse. Scopri di più”. In un momento a fortissima carica emotiva, in cui il presidente usa Twitter per sputare odio e divisione, il social network decide per la seconda volta in pochi giorni di tenergli testa e di limitare il suo tweet perché “glorifica la violenza” – e su questo c’è poco da discettare.

 

E’ arrivato il momento di introdurre il cattivo di questa storia, Mark Zuckerberg di Facebook. Anche se il social network più grande del mondo (2,45 miliardi di utenti attivi contro i 330 milioni di Twitter) ha partecipato alla campagna contro le fake news da coronavirus, Zuckerberg non ha seguito Jack Dorsey nel suo attivismo di questi ultimi giorni. Tutto il contrario: quando Twitter ha fatto fact checking ai due tweet di Trump sul voto postale, quella sera stessa Zuckerberg si è fatto intervistare da Fox News, la tv preferita di Trump, per dire che lui non intende contraddire il presidente e che i social network non sono i “giudici della verità”. La paura di Zuckerberg di fare arrabbiare i conservatori è nota e antica. Pochi giorni fa il Wall Street Journal (che è un giornale conservatore, non una sentinella marxista) ha pubblicato un lungo reportage in cui spiegava come negli ultimi quattro anni tutti i progetti per ridurre la prevalenza delle fake news e rendere più civile il dibattito su Facebook sono stati archiviati o depotenziati perché metterli in pratica avrebbe significato penalizzare la destra populista americana. E’ una questione statistica: negli Stati Uniti e in parte dell’Europa, è la destra che fa maggiore uso di armate di troll e di misinformazione. Ma Zuckerberg sa che agire contro i troll e le fake significa finire nel tritacarne trumpiano, e per lui questo è inaccettabile. E dunque: qualunque cosa dica e qualunque regola violi, Trump non si tocca.

 


 

Mark Zuckerberg (foto LaPresse)


 

Il problema per Zuckerberg è cominciato dopo Minneapolis. Dopo che Trump ha postato su Facebook lo stesso identico messaggio sul “looting and shooting” (per il presidente americano Twitter è uno strumento di comunicazione, mentre Facebook è uno strumento di propaganda, in cui i contenuti vengono riproposti e amplificati) e mentre Twitter lo copriva, Zuckerberg prendeva la decisione di lasciarlo intoccato (e rassicurava il presidente al telefono). E dunque ecco il cavaliere bianco e il cavaliere nero. Da una parte Twitter, che quando il presidente degli Stati Uniti minaccia di far aprire il fuoco sui cittadini decide di agire, e dall’altra Facebook, che invece non vuole prendere l’iniziativa per paura di danneggiare il business.

 

La crisi che ne è seguita e che è ancora in corso è una delle peggiori della storia di Facebook. Centinaia di dipendenti hanno organizzato la scorsa settimana uno sciopero virtuale: poiché sono tutti al lavoro da casa a causa della quarantena non hanno potuto abbandonare i loro uffici, ma si sono resi indisponibili nei servizi interni di Facebook. Decine di dipendenti, tra cui molti manager, hanno accusato apertamente Zuckerberg, dicendo che si vergognano di far parte dell’azienda, e hanno pubblicato le loro accuse su Twitter (perfidi), dove sono state riprese dai giornalisti. Qualcuno ha perfino dato le dimissioni. Una tale rivolta interna a Facebook non si era mai vista nemmeno ai tempi durissimi di Cambridge Analytica.

 

Dorsey e Zuckerberg hanno cominciato a pensarla in modo differente qualche anno fa. La prima decisione del ceo di Facebook di non interferire in alcun modo con i post dei politici perché costituiscono una notizia risale al dicembre del 2015, e già allora fu duramente contestata. Da quel momento, politici e membri delle istituzioni hanno avuto completa mano libera su Facebook, e questo ha avuto conseguenze gravi. E non è soltanto una questione di candidati che si accapigliano sui social. In Myanmar, dove a partire dal 2016 la minoranza Rohingya è stata vittima di un genocidio, Facebook è stato usato per fomentare le divisioni e incitare la violenza genocidaria – e questa non è l’accusa di un’ong, è stato ammesso proprio da Facebook. Il social network ha riconosciuto nel 2018 di essere stato strumentale alla diffusione della violenza settaria tra musulmani e buddhisti in Sri Lanka, dove centinaia di persone sono morte. I ricercatori internazionali ritengono che Facebook sia stato essenziale per la salita al potere del presidente autoritario Rodrigo Duterte nelle Filippine, e così via.

 

Al contrario Dorsey, che pure gestisce una piattaforma meno influente come Twitter, è sempre stato più recettivo. Un paio di anni fa, durante una conversazione con la giornalista Kara Swisher, disse che in tema di “responsabilità tech” dava a se stesso una C, che è la sufficienza. Al tempo la risposta fu considerata come autoassolutoria, e Swisher rispose a Dorsey dicendo che invece si meritava un’insufficienza grave, ma almeno la C indicava che Dorsey sperava di migliorare. Dopo qualche anno, infinite discussioni e la pubblicazione di molti documenti di policy, la differenza è diventata evidente.

 

Ora, Zuckerberg ha le sue ragioni. Guidare un social da due miliardi e mezzo di utenti non è come guidarne uno da 300 milioni. Il ceo di Facebook sostiene che a livello personale i post di Trump gli provocano “disgusto”, ma che la moderazione dei contenuti controversi è un piano inclinato. “Nel corso di tempo, tendiamo ad aggiungere sempre più regole restrittive. Se tutte le volte che succede qualcosa di controverso il tuo istinto è dire ‘Ok, blocchiamo tutto’, allora si finirà col restringere moltissime cose che invece alla fine potrebbero essere un bene per tutti”, ha detto durante una riunione con i dipendenti a proposito dei post di Trump.

 

La questione però potrebbe essere inquadrata in maniera differente: sia Twitter sia Facebook hanno regole interne molto rigide e dettagliate su cosa è accettabile e cosa no. Il problema è che molti politici, e Donald Trump in particolare, queste regole le hanno violate sistematicamente. Fino a un paio di settimane fa entrambi i social avevano deciso di lasciar correre e di consentire che le loro stesse regole fossero violate da figure pubbliche e politiche. Twitter ha cambiato idea, Facebook no.

 

Twitter non ha deciso di diventare “giudice della verità”, ha deciso di far rispettare le sue regole, ed è per questo che il fact checking è stato applicato ai tweet fuorvianti sulle elezioni (c’è una regola in merito) e non a quelli sulle false accuse di omicidio (non c’è una regola in merito). E’ questa la ragione per cui Twitter ha fatto fact checking anche a un tweet del portavoce del ministero degli Esteri cinese che sputava falsità sul coronavirus (c’è una regola) mentre invece le minacce dell’ayatollah Khamenei contro Israele sono considerate bordate diplomatiche e tollerate (anche se su questo c’è giusta polemica: il 22 maggio Khamenei ha scritto che “il regime sionista... sarà distrutto”, e questa sembra proprio esaltazione della violenza).

La domanda a questo punto potrebbe essere: perché un manipolo di imprenditori, Mark Zuckerberg di Facebook, Jack Dorsey di Twitter e mettiamoci dentro anche Sundar Pichai di Google, può decidere cosa leggono e vedono miliardi di persone e può imporre regole del tutto arbitrarie su cosa viene visto e cosa no, e perfino decidere in che modo far rispettare queste regole? Dal punto di vista del mercato è tutto normale, stiamo parlando di piattaforme private. Dal punto di vista della democrazia la certezza non è così salda.

 

Il futuro dei social network

Ma insomma, se quella di Twitter è davvero una rivoluzione, cosa succede adesso? Nell’immediato, i social sono in pericolo. Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo in cui chiede ad alcune agenzie federali di reinterpretare la Sezione 230 del Communications Decency Act del 1996, che è una delle leggi fondamentali di internet. (La sua storia è interessante: nasceva come una legge per bandire la pornografia da internet, ma dopo un lavoro di lobby pazzesco si trasformò in una legge che protegge internet, pornografia compresa). Nella Sezione 230 c’è un comma di 26 parole che fornisce alle piattaforme internet uno scudo legale da tutto quello che gli utenti possono scrivere al loro interno. Con poche eccezioni, se qualcuno scrive ingiurie, calunnie o minacce su Facebook l’unico responsabile legale di quanto scritto è l’autore del post, non Facebook. La Sezione 230, inoltre, garantisce alle piattaforme il potere quasi insindacabile di cancellare, sospendere e bloccare qualunque contenuto a loro piacimento: Facebook e Twitter sono piattaforme private che a casa loro fanno quello che vogliono. Senza questo scudo legale, che esiste in forme simili anche in Europa e nel resto dell’occidente, i social network sono praticamente morti. Renderli responsabili per qualunque cosa pubblichino gli utenti significa paralizzarli, e assicurarsi un livello di censura altissimo: per non correre rischi, Facebook e Twitter cancellerebbero qualsiasi contenuto anche blandamente controverso, si tratti di satira o di discussione politica.

 

Gli esperti dicono che l’ordine esecutivo di Trump ha un alto valore simbolico ma nessun valore legale – è praticamente carta straccia – ma molti deputati e senatori americani sono interessati a cambiare la legge, e il sentimento è bipartisan. In tempi recenti, anche il candidato democratico Joe Biden ha sostenuto che la Sezione 230 andrebbe eliminata. E’ facile immaginare però che i social media scamperanno questo pericolo. Hanno abbastanza lobbisti a Washington per farcela.

E tuttavia, Facebook, Twitter e i social non usciranno indenni dal combinato disposto degli ultimi quattro anni: le elezioni di Donald Trump e l’ascesa del populismo in Europa, la pandemia, le rivolte razziali. Fino a qualche mese fa, sembrava che Zuckerberg, Dorsey e colleghi non avessero imparato niente. I risultati economici, soprattutto per Facebook, non hanno mai smesso di essere eccezionali, e perfino Twitter, da sempre in rosso, nell’ultimo paio d’anni ha cominciato a fare profitti. I giornalisti e i politici strillano contro le piattaforme da anni, ma i cittadini non ci fanno caso – e il fatto che le proteste contro i social avvengano sui social non aiuta. In realtà molte ricerche mostrano che il rapporto tra i social e i loro utenti assomiglia più a una sindrome di Stoccolma che a una collaborazione reciproca: ricerche interne a Facebook hanno rivelato che l’utilizzo del social network rende più miserabili le persone, che spesso se ne accorgono ma non riescono a smettere.

Per anni si è immaginato che il cambiamento sarebbe arrivato dai legislatori, da qualche riforma, magari da una nuova legge europea, ma non funziona così, i fenomeni sociali non si imbrigliano con una legge. Invece, la più grande novità degli ultimi anni nel panorama dei social network è arrivata da un ripensamento.

 

Mark Zuckerberg, che ha come modello l’imperatore romano Cesare Augusto (le sue figlie si chiamano una August e l’altra Maxima, e si specula sul fatto che il taglio di capelli poco sofisticato del ceo di Facebook sia fatto a immagine dell’effigie imperiale), è un uomo di conquista, non è pensabile che nessun ripensamento arrivi da lui, né è immaginabile: un impero da due miliardi e mezzo di persone non lo costruisci dando spazio ai dilemmi etici. C’è voluto Jack Dorsey, il ceo distratto che preferisce la meditazione alle riunioni strategiche, per dare una sterzata a Twitter – che è un piccolo social network, ma potrebbe portare con sé tutti gli altri. A Dorsey sono bastati due link e una pecetta per mostrare a Zuckerberg che si può tenere testa anche alla Casa Bianca, e per provocare una rivolta interna a Facebook. Venerdì notte, dopo una settimana di passione, Zuckerberg ha scritto un lungo post in cui annuncia che potrebbe rivedere le logiche di sostanziale deresponsabilizzazione che dettano la moderazione dei contenuti su Facebook. E’ un buon passo, ma Facebook ha una lunga storia di annunci incoraggianti caduti nel vuoto.

Due link e una pecetta sono bastati anche per dimostrare che si può essere responsabili senza essere partigiani: anche se Trump strepita e dice il contrario, l’intervento di Twitter è stato ben limitato e non ha leso i diritti di nessuno.

 

La rivoluzione della responsabilità è appena cominciata, ed è probabile che nessuno conosca i prossimi passi. Fare fact checking di qualche tweet è un conto, ma estendere questo principio a centinaia di milioni di utenti è un inferno logistico. Eppure è probabile che in questi giorni abbiamo assistito al passaggio dei social network all’età adulta: Dorsey ha capito che introdurre un elemento di responsabilità nelle piattaforme è necessario per mantenere quella libertà di cui i social network sono i primi a godere. Arriverà a capirlo anche Mark.

  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.