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Fare causa all'algoritmo non è la strada migliore per tutelare i rider

Barbara D'Amico

La Cgil porta il colosso delle consegne via app in tribunale anziché in parlamento

Torino. Alla fine dovranno occuparsene i giudici. E pazienza se le norme per tutelare rider, fattorini e lavoratori da piattaforma erano state approvate proprio per ridurre il continuo ricorso ai tribunali nelle vicende della gig economy.

 

Due giorni fa la Cgil ha infatti annunciato di aver promosso una causa contro il colosso delle consegne via app Deliveroo, o meglio contro il modo in cui Deliveroo ha costruito l’algoritmo che gestisce quelle consegne. Secondo le sigle Filt, Filcams e Nidil Cgil, Frank – così si chiama il gestionale –, “emargina i lavoratori che per motivi personali legati a diritti come la malattia e lo sciopero, non si rendono continuativamente disponibili al lavoro”. L’obiettivo, secondo Carlo De Marchis, l’avvocato della Cgil che sta curando il ricorso, “è proprio quello di umanizzare l’algoritmo e ottenere una modifica del codice più rispettoso delle norme a tutela dei lavoratori”.Una richiesta legittima.

 

Peccato però che la discriminazione degli algoritmi, effetto collaterale della programmazione umana, sia un fenomeno conosciuto (e che non riguarda solo le società di food delivery) e su cui esperti e authority a livello internazionale concordano sia necessario intervenire legislativamente e tramite policy aziendali. Non, dunque, a colpi di sentenze.

 

Era stato proprio il decreto 101/2019 a introdurre, meno di tre mesi fa, le norme sul divieto di discriminazione e di esclusione dalle piattaforme di lavoro – digitali e non – in caso di rifiuto di ordini e reperibilità per le consegne (pratica denunciata dai rider ma sempre negata dai colossi del food delivery). Norme generali, di indirizzo, e quindi insufficienti.

 

Lo ammette lo stesso Andrea Borghesi, segretario generale di Nidil Cgil, tra le realtà che da anni cercano di ridisegnare gli strumenti a tutela dei lavoratori atipici, autonomi, fluidi. “Il decreto da solo non è sufficiente – spiega il sindacalista al Foglio –. Il decreto parla di applicazione del principio di non-discriminazione, ma non lo impone. Questo non vuol dire che siamo contro la tecnologia, non vorremmo mai tornare ai tempi in cui il lavoro era gestito manualmente, ma nel sistema fordista i meccanismi di organizzazione della manodopera erano conosciuti e quindi oggetto di contrattazione. Oggi invece sono le piattaforme e gli algoritmi a gestire il lavoro ma senza che i criteri e le modalità siano conosciute perché, appunto, oscure”.

 

Rendere più trasparenti i codici degli algoritmi per riappropriarsi di un potere sindacale e tutelare le, certo, compresse libertà di molti lavoratori a cottimo digitale, è un obiettivo che ha risvolti complicati e persino grotteschi. “E’ una questione spinosa”, commenta Luca Furfaro, consulente del lavoro ed esperto di tutele digitali. “Conoscere le modalità di organizzazione delle mansioni via app è importante ma capire quali siano le regole che all’interno dell’algoritmo non discriminano le offerte e le richieste di ordine – nel caso delle consegne online – è difficile. Se si intimasse di modificare il codice o di renderne note alcune parti, una decisione del genere potrebbe compromettere gli investimenti nelle piattaforme”. Eppure è proprio quello che ha chiesto la Cgil tramite il ricorso, sperando di ottenere un intervento sulla parte informatica.

 

Ma per convincere le aziende hi-tech che le risorse umane restano il capitale più importante su cui investire, costruendo alla base una struttura digitale giusta, trascinare in tribunale la gig economy non serve. Bisogna pensare (e scrivere) meglio quelle leggi che la politica e i corpi intermedi faticano a promuovere. Senza chiedere a un giudice di farlo oltre le sue (umane) competenze.

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